Niente, i mercati proprio non ne vogliono sapere.
Ma come, abbiamo risolto il problema della governance macroeconomica in Europa, anche se con il dissenso di quegli inguaribili isolazionisti dei Britannici, e invece gli spread continuano a non scendere, le borse ad accumulare insoddisfazioni, i cambi restano nervosi.
La ragione è semplice. Lungi dal ritenere che i mercati siano sempre nel giusto, specialmente nel breve, crediamo però che avversione al rischio e investitori non si fidino di soluzioni compromissorie e situazioni poco chiare.
L'accordo sull'armonizzazione delle politiche fiscali in Europa è, appunto, un patto fiscale, non un'unione fiscale. Quest'ultima presuppone lo sviluppo di un armonioso sistema di esazione fiscale (tasse comuni in termini sia di aliquote che di capacità di riscossione) e di un mercato unico dei titoli di stato, mentre quanto approvato è un generico, nebuloso e tutt'altro che legalmente fattibile compromesso per una concertazione a livello europeo delle strategie di bilancio degli stati membri. Che esisteva già, ma non ha evidentemente funzionato, principalmente perchè mancava di credibilità. Ragione per la quale ci ritroviamo con alcuni stati nazionali illiquidi o sostanzialmente insolventi (Italia tra questi), altri che rischiano di diventarlo a breve (Belgio, Francia, Austria) e altri ancora impauriti dal rischio di dover pagare il conto (Germania, Finlandia, Olanda).
Tuttavia, la ragione vera per cui gli investitori continuano a non fidarsi è un'altra. Quand'anche il nuovo Patto fiscale fosse magicamente disegnato e applicato domani mattina nel migliore dei modi, esso costituirebbe soltanto una cura ex post alla mancanza di disciplina fiscale degli scorsi decenni.
Resterebbero fuori le due cause-chiave, molto spesso ricordate in questo blog, della crisi del debito che stiamo vivendo. La prima, la più facile da affrontare (!), riguarda la capitalizzazione delle banche europee e il loro atteggiamento nei confronti del rischio. Con le patrimonializzazioni sottili e la disinvoltura con cui i grandi gruppi bancari continuano a saltare la barriera tra commercial e investment banking, abbiamo anni di fragilità finanziaria ancora da vivere.
Secondo, ma ancora più rilevante, in Europa permangono enormi divari di produttività e competitività tra core e periferia. Questi sono la vera causa della scarsa crescita reale degli ultimi decenni in Italia e altrove, a sua volta a monte delle difficoltà di bilancio pubblico e di bilancia dei pagamenti che preoccupano gli investitori.
Se non emergeranno a breve aggiustamenti istituzionali e riforme strutturali in grado di attenuare rapidamente questi gaps di produttività e competitività, non possiamo sperare di vedere la fine di questa crisi. Manovre e manovrine, tra l'altro tutte più o meno sbilanciate, come l'ultima del governo italiano, sul lato delle entrate e dagli effetti recessivi, non faranno altro che comprare un po' di tempo in attesa della prossima fase parossistica di crisi.
Persino il cosiddetto bazooka, ossia un intervento massiccio della BCE a sostegno incondizionato delle emissioni di titoli degli stati periferici, oltre a dover contemplare una scala sproporzionata per avere un effetto duraturo (forse più di mille miliardi di euro), oltre ad essere politicamente indigesto alla Germania e agli altri paesi "virtuosi", non può che avere un effetto estremamente limitato sugli incentivi e la fattibilità di misure che curino la mancanza di produttività dei paesi periferici.
Come abbiamo già scritto tante volte, l'attendismo e la ricerca delle false soluzioni a questi problemi sta inesorabilmente facendo crescere il costo delle soluzioni più indolori, e incrementa la probabilità di scenari catastrofici. Che ci auguriamo non abbiano luogo, ma...
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