21 maggio 2012
JPMorgan e la nemesi storica
JPMorgan, la più blasonata istituzione finanziaria statunitense, è stata investita da una colossale perdita in operazioni su derivati.
Per iniziare a spingere l’analisi di quanto accaduto oltre gli aspetti, pur rilevanti in sé e per l’opinione pubblica, della quantificazione dell’entità delle perdite e dell’individuazione delle responsabilità interne all’azienda, si potrebbe porre il seguente interrogativo: come ha potuto quel fatto succedere in una azienda che da sempre ha fatto scuola in tema di individuazione, quantificazione e gestione dei rischi? Al riguardo, ricordiamo che sin dalla seconda metà del decennio 1980 era proprio JPMorgan ad avviare, con quello che sarebbe divenuto noto come ‘Rapporto delle 16:15’, la pratica oggi diffusa del calcolo quotidiano del Value at Risk (VaR), ovvero della perdita massima attesa da ogni singola azienda espressa dapprima in percentuali e poi in valori monetari assoluti. Ricordiamo altresì che, nel 1994, in occasione dell’incidente petrolifero Exxon Valdez, era la medesima azienda a inventare il Credit Default Swap (CDS), strumento in sé nobile di copertura del rischio di credito, e che pure è poi entrato a far parte dell’armamentario di ogni istituzione finanziaria. Se ciò non bastasse, in tempi recenti JPMorgan ha dato un’altra lezione di risk management all’intera industria finanziaria decidendo di uscire dal settore immobiliare prima che la bolla scoppiasse e sulla base di una ammirevole posizione del tipo: “in tema di ciclo dei valori immobiliari non disponiamo ancora di dati sufficienti per convincerci che il mercato non sia sopravvalutato e non possa scendere”.
In quest’articolo, però, più che soffermarci sull’evidente contraddizione emersa tra una grande tradizione di risk management e i fatti di oggi, vorremmo spingere la riflessione più in profondità ancora richiamando il ruolo di punta che JPMorgan ha avuto nel fare sì che negli USA non si arrivasse mai a una regolamentazione organica proprio di quei derivati che ora hanno causato la colossale perdita.
La vicenda, raccontata in ogni storia della finanza degli ultimi decenni, parte dal 1988 quando, al vertice del gruppo di pressione ISDA, creato dai maggiori operatori in swaps su tassi di interesse e di cambio –i derivati più diffusi del momento- in risposta alle crescenti attenzioni delle autorità di vigilanza, JPMorgan colloca un proprio uomo, Mark Brickell. Di lì a poco, la Commodity Futures Trading Commission (CFTC) annuncia di voler stabilire se i derivati siano o meno futures. La domanda non è banale perché, in caso di risposta positiva, automaticamente i swaps ricadrebbero sotto il potere regolamentare di CFTC. Brickell sferra allora un attacco difensivo basato sui seguenti argomenti: (a) poiché l’attività in derivati è fonte continua di innovazione finalizzata a ridurre il rischio, è bene che essa non venga frenata da alcuna regolamentazione; (b) gli operatori in derivati sono in banche, quindi istituzioni già sottoposte a regolamentazione e vigilanza, e comunque informati e sofisticati che non hanno bisogno di particolari tutele e controlli; (c) il mercato basta a tenere tutto in ordine; (d) i derivati non possono essere futures perché, se lo fossero, per il fatto di non originare in mercati regolamentati i relativi contratti non avrebbero forza legale. Passando dalle affermazioni alle omissioni, Brickell fa finta di non vedere che i derivati non annullano il rischio, ma lo spostano semplicemente da un’istituzione a un’altra, il che porta anche al formarsi di un grado di interconnessione tra le medesime che prima non esisteva.
Nel pieno dello scontro, George Bush nomina un nuovo presidente di CFTC il cui primo atto consiste nell’incontrare proprio Brickell e Greenspan, che è stato nel board di JPMorgan e ha pure sposato la tesi che basti il mercato. Risultato: nel 1989 la stessa CFTC stabilisce che i derivati non sono futures.
Nei primi anni ’90, la stessa JPMorgan e Brickell sono in prima fila nel produrre un rapporto di ben quattro volumi titolato Derivatives Practices and Principles e pure finalizzato a contrastare le attenzioni delle Autorità. Questa volta l’argomento centrale è che l’autodisciplina degli operatori in derivati basta e avanza.
Il braccio di ferro con le autorità comunque prosegue perché nel 1992, il presidente Corrigan della Fed di New York lancia un forte richiamo ai rischi dei derivati e chiede che il General Accounting Office (GAO) attui un’indagine a tappeto in materia L’industria risponde ‘favorendo’ il passaggio di Corrigan dalla Fed a Goldman Sachs, con suo netto cambio di opinioni in tema di derivati.
Nel frattempo, però, i rischi dei derivati si concretizzano nelle grosse perdite registrate da Procter & Gamble, Gibson Greetings e Orange County su contratti proposti loro da Bankers Trust e Merrill Lynch. Per cui, il GAO avvia comunque l’indagine proposta da Corrigan chiedendo ai quindici maggiori operatori in derivati un dettagliato resoconto sulla propria attività. Sulla base dell’evidenza fornita da quattordici di essi –il quindicesimo si rifiuta di collaborare- il GAO stende un rapporto allarmante. Infatti, è risultato che: (a) la maggior parte dell’operatività in derivati avviene non in banche regolamentate e vigilate, come ha sempre sostenuto Brickell, ma in società di brokeraggio o assicurative oppure in veicoli specificatamente creati per sfuggire al controllo di ogni autorità, SEC inclusa; (b) almeno un terzo di tali operatori non conosce gli stress tests, e (c) l’entità dell’operatività di ogni singolo operatore è tale da porre, in caso di suo default, rischi ‘sistemici’ di liquidità e controparte, e costituire una seria minaccia per le stesse banche dotate di assicurazione federale.
Il rapporto del GAO sfocia nella proposta al Congresso–certo non radicale né onerosa- di fare sì che i singoli operatori forniscano alle autorità informazione atta a consentire di anticipare il precipitare di una crisi o comunque di gestirla al meglio. Ma anche questa volta l’industria contrattacca con la duplice tesi che la rischiosità sistemica dei derivati non è stata dimostrata e che la proposta del GAO ridurrebbe fortemente la disponibilità di derivati, il che danneggerebbe l’economia americana. Nel corso delle audizioni conoscitive del Congresso, gli uomini del GAO vengono aggrediti verbalmente dai parlamentari e non sono sostenuti nemmeno da FDIC, SEC, Tesoro e Fed. Per cui, non se ne fa nulla: il lobbismo avviato da Brickell prima del suo passaggio delle consegne quale presidente di ISDA è risultato ancora una volta efficace.
Tornando all’oggi, poiché in incidenti simili c’è sempre un potenziale rischio sistemico, non è il caso di concludere con il detto ‘chi è causa del proprio mal, pianga se stesso’. Ma ci sia comunque consentito rimarcare due cose. Primo, anche in finanza esiste una nemesi storica; in questo caso, il punto è peraltro rafforzato dal fatto che la quindicesima istituzione che si rifiutava di collaborare con il GAO era quell’American Insurance Group (AIG) che sarebbe stata travolta, in occasione della crisi subprime, proprio dalla propria operatività in derivati. Secondo, le banche che raccolgono depositi e sono sostenute dall’assicurazione statale non possono essere gestite come hedge funds; a questo riguardo, ora Dimon alza le braccia e dice “sono d’accordo con il varo della ‘Regola di Violker’”, ma è un dato di fatto che sin dal 1990 JPMorgan ha svolto un ruolo di punta anche nel far saltare il Glass-Steagall Act.
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