Gli
ultimi anni hanno insegnato che nelle previsioni economiche è preferibile
mantenersi prudenti, perché l’incertezza domina l'evoluzione futura dei mercati
e delle economie. Individui, famiglie, imprese, gli stessi Stati nazionali fronteggiano
oggi una fase di accentuata volatilità, che si riverbera negativamente sulle
decisioni di tutti questi attori.
Tutta
questa incertezza deriva dal fatto che la Grande Crisi del 2008 ha accelerato una
trasformazione strutturale dell'economia già in corso. Progresso tecnico,
globalizzazione, spostamento verso est del baricentro produttivo e
invecchiamento demografico sono processi permanenti, ma con la Crisi i loro
effetti, e i loro costi, sono diventati più significativi, specialmente per
alcuni ceti sociali e per alcuni paesi. Interi settori industriali sono in via d’estinzione.
Diverse occupazioni sono divenute obsolete o ridondanti; le fragilità di alcuni
sistemi produttivi nazionali, e del loro welfare, sono per alcuni paesi ancora
più insostenibili di quanto non fossero poco tempo fa. La geografia stessa
della produzione e dello scambio mondiali sta rapidamente mutando, promuovendo
nuovi protagonisti (asiatici e latino-americani) e mettendo in forte difficoltà
sistemi storicamente dominanti (vecchia Europa). Questi turbinosi cambiamenti creano
opportunità, timori, ma soprattutto incertezza.
Quanto
emerge dalle nebbie di questo tempo non somiglia per nulla ad una ripresa
economica stabile e duratura. Le economie dei paesi occidentali vivono e vivranno
ancora almeno per il 2012 una persistente debolezza. I paesi emergenti
continueranno a crescere più vigorosamente di noi, ma meno di quanto abbiano
fatto negli ultimi due anni. Consumi, investimenti e commercio internazionale a
loro volta si indeboliranno.
Il
nostro paese è tra i più esposti a questi rischi, e al tempo stesso quello più
vulnerabile alla questione oggi più importante, cioè la sostenibilità delle
finanze pubbliche.
Il
vasto debito che abbiamo potrebbe essere ridotto se il paese crescesse a tassi
tripli o quadrupli di quelli degli ultimi 10 anni. Se invece continuasse la scadente
crescita economica recente, ci ritroveremmo in una prospettiva greca o argentina.
Per evitarla, occorre far salire le entrate pubbliche, tagliare la spesa, o
combinare le due cose. Ora, tutti ci auguriamo una sconfitta dell’evasione
fiscale, che però non sarà possibile a breve, né senza fondamentali revisioni
del nostro sistema giuridico e un irrobustimento del contratto sociale che lega
gli Italiani allo Stato. Queste cose richiedono, oltre che volontà, molto
tempo, e non è scontato che riescano. Quindi, restano essenzialmente l’aumento
della pressione fiscale sui ceti che già pagano le tasse, oppure una
diminuzione significativa delle spese. Complessivamente, la seconda via può fornire
una soluzione meno iniqua e strutturale al problema. Ed eliminare una
consistente fonte di incertezza.
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