2 luglio 2012

Brescia e il credit crunch - Seconda parte


(Continua dal post precedente)...
La crisi finanziaria a partire dal 2007 ha comportato ulteriori assottigliamenti del capitale proprio delle banche italiane e una drammatica e persistente fase di indebolimento della loro capacità di raccolta della liquidità. Queste difficoltà si sono ulteriormente acuite con la più recente fase di turbolenza legata alla crisi debitoria nell’area dell’euro e alla debolezza del sistema economico italiano. Alla loro relativa sottocapitalizzazione gli istituti hanno reagito solo in minima parte attraverso la raccolta di mezzi propri freschi, e in larga misura invece con una sostenuta attività di deleveraging, ossia con una consistente riduzione degli impieghi, che ha amplificato il credit crunch. A questa logica non si sono sottratte neanche le recenti operazioni straordinarie di rifinanziamento della BCE, che non si sono finora tradotte in apprezzabili aumenti dei prestiti, se non agli Stati sovrani periferici sotto forma di acquisti di titoli di stato a breve e media scadenza. Il che ha ulteriormente peggiorato il profilo di rischio degli attivi bancari, come si vede dal feedback loop che in questi giorni lega il rischio sovrano e i corsi azionari delle banche italiane e spagnole.

I riflessi “bresciani” di queste tendenze nazionali sono particolarmente severi. La costituzione dei nuovi gruppi bancari ha comportato un notevole deterioramento nelle già difficili relazioni tra banche e imprese del territorio, che fino a pochi anni fa potevano contare su un significativo, anche se sempre problematico, radicamento degli intermediari finanziari. La crescita dimensionale di questi ultimi, lo snaturamento della vocazione territoriale e l’adozione di modelli di business più orientati alle attività di investimento e di trasferimento dei rischi piuttosto che a quelle tradizionalmente concentrate sul finanziamento delle attività produttive, hanno privato il tessuto imprenditoriale bresciano di un fondamentale canale di approvvigionamento di risorse finanziarie, anche in misura superiore rispetto ad altre province. I nuovi grandi gruppi hanno inoltre adottato politiche di standardizzazione delle pratiche creditizie che hanno mortificato il carattere fortemente segmentato del segmento corporate.

Le PMI hanno risentito in misura particolare di queste tendenze, perché più strettamente vincolate al credito bancario per le proprie necessità e meno in grado di attivare canali alternativi di raccolta rispetto ad imprese meglio strutturate. Nonostante lodevoli tentativi di controbilanciare il credit crunch attraverso strumenti come i consorzi fidi o le garanzie collettive, l’effetto di restrizione creditizia è stato, anche nel 2011 e nell’anno in corso, particolarmente pesante. Le operazioni aziendali maggiormente penalizzate sono ovviamente quelle che richiedono investimenti più rilevanti, quindi le ristrutturazioni dei processi produttivi, l’adozione di nuove linee o processi di produzione, la riorganizzazione aziendale. Si tratta di operazioni cruciali per garantire l’adattamento delle imprese a un contesto sempre più aperto alla concorrenza e orientato all’innovazione e alla qualità dei prodotti. In altri termini, la fase di grandi trasformazioni strutturali che stiamo vivendo comporta per le imprese una molteplicità di operazioni di riorganizzazione complesse ed onerose sul piano dei fabbisogni di capitale, e questo spiega perché la mancanza di credito per le attività di questo genere si stia tragicamente riflettendo in mancata ripresa dell’attività produttiva.

Come se ne esce? Tornando ai fondamentali, quindi a banche la cui operatività corporate parta dalla costruzione attenta e meticolosa di un rapporto di lungo termine con il tessuto imprenditoriale territoriale, in un’ottica di concorrenza vera tra intermediari, di vigilanza occhiuta e indipendente sui loro bilanci, e di patrimonializzazione solida e non viziata da artifici contabili e compiacenze regolamentari. Questa prospettiva implica, nel breve-medio termine, una messa in discussione del ruolo delle fondazioni bancarie e degli attuali assetti proprietari dei gruppi. Forse anche il ritorno limitato e temporaneo, alla “svedese”, dello Stato nel loro capitale. Se questo è il prezzo da pagare per avere banche che finalmente si concentrano sul loro compito fondamentale, cioè di intermediare efficientemente i flussi di fondi tra risparmi e investimenti, perché escludere opzioni coraggiose? Never waste a serious crisis...

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