C'è un robusto filo rosso che unisce le ragioni di fondo della recessione/stagnazione che il nostro e altri Paesi stanno vivendo con la persistente instabilità sui mercati finanziari di questi anni.
Uno dei canali di trasmissione più diretti è quello legato al ruolo dell'incertezza.
Un'impresa italiana che sta prendendo in considerazione un'importante decisione di investimento fronteggia diversi livelli di incertezza. La volatilità della domanda probabilmente le impedisce un'analisi di mercato sufficientemente chiara da consentirle una stima affidabile dei flussi di vendita attesi. I cambiamenti nelle condizioni di accesso al credito intervenuti negli ultimi anni la possono convincere a intravvedere solo variazioni peggiorative. I dubbi, diciamo pure lo scetticismo generalizzato, sulla situazione della finanza pubblica italiana, indicano che il carico fiscale potrebbe crescere ulteriormente, per il reddito di impresa e forse ancora di più per i fattori produttivi, capitale e lavoro. E così via.
Consumatori e investitori in media non possono che soffrire circostanze molto simili di elevata incertezza. Di fronte alle quali la reazione meno preoccupata è lo stand-by nei piani di consumo e investimento; quella più verosimile una riduzione precauzionale di entrambi, con ovvie ripercussioni a livello aggregato. Di fronte a incertezze fondamentali sul livello futuro della tassazione del reddito, dei contributi e delle prestazioni previdenziali, non esistono reazioni più razionali.
La cura: le autorità di politica economica dovrebbero "cancellare la lavagna" e mettere nero su bianco pochi, comprensibilissimi e credibili piani per restituire certezze a consumatori, investitori e imprese. Attenzione, qui la parola più importante è: "credibili". Quando il ministro dello sviluppo economico annuncia in giugno un piano di investimenti pubblici da 80 miliardi che a luglio egli stesso ammette trattarsi di un più modesto riordino di incentivi esistenti con un apporto di nuove risorse al massimo pari a 2 miliardi, l'effetto depressivo sulle aspettative degli individui e delle imprese è terribile. Oppure, quando mezzo governo, primo ministro incluso, ogni 5 minuti sostiene che i conti pubblici sono in sicurezza, salvo poi dover ricorrere a condizioni capestro sui mercati obbligazionari per rifinanziare pochi miliardi di debito, la scena ricorda più quella del naso a geometria variabile di Pinocchio davanti alla fatina che a implacabili docenti bocconiani di economia davanti ai rozzi speculatori internazionali. E gli esempi potrebbero continuare, dalla solvibilità delle banche, alle prospettive del PIL, ecc.
La cura, dicevamo. Impensabile a questo punto sperare di superare questa crisi senza una qualche ristrutturazione dello stock di debito. Un'operazione che ne abbatta di almeno 200-300 miliardi di euro il valore nominale. I modi ci sono, anche relativamente semplici. A patto che si accetti di infliggere qualche perdita in conto capitale ai bondholders. In aggiunta, dismissioni di quote significative del patromonio pubblico, a partire dall'infinito arcipelago di aziende controllate e partecipate dallo Stato Centrale e dalle amministrazioni locali. Anche qui, fare i furbi non pagherebbe: cedere queste proprietà alla Cassa Depositi e Prestiti sarebbe una semplice partita di giro, per di più ulteriormente peggiorativa dell'attuale decrepita struttura familistico-amorale del capitalismo italiano. Infine, un'impietosa imposta addizionale progressiva sui patrimoni mobiliari e immobiliari, a partire da quelli delle società, con cui finanziare un potente sgravio fiscale sulle attività di investimento "reali" e sul lavoro.
Sono tutte cose tecnicamente fattibilissime, e dagli effetti molto significativi. Se non se ne vede l'ombra, è solo perchè interessi fortemente concentrati, fondazioni bancarie, lobbies occulte, cricche e cosche varie riescono a condizionare fortemente l'attività esecutiva, legislativa e anche il dibattito di politica economica del nostro Paese, fino a trascinarlo al punto in cui siamo, cioè al collasso.
l'abbattimento del debito è il punto cruciale sono d'accordo. Ma ci arriviamo ora, mentre potevamo affrontarlo già da novembre scorso. Così come il taglio della spesa (che tra l'altro è insignificante rispetto alle dimensioni della stessa)
RispondiEliminaArrivati a questo punto può essere che per l'Italia sia più probabile/plausibile uscire dall'euro e rimettersi a stampare che ristrutturare il debito.
Prima di "ristrutturare" (bello sto termine che sembra che si prende una facciata e la si migliora) si passerà (nel caso) da patrimoniali, vendita delle aziende di stato, licenziamenti, taglio stipendi pa ecc.. e non credo sia possibile per l'Italia tutto ciò.
non credo che passerà (ma potrei sbagliarmi) un taglio del debito a scapito delle famiglie italiane che hanno i bot e i btp. Almeno diciamo che lo spero che non sia così.
per fare un taglio del debito, chiunque voglia farlo, in Italia, prima dovrà fare quello che ho descritto prima (tagliare stipendi direttori rai, direttori inps, presidenti regioni, vendere patrimonio ecc..).
Siccome non credo che tutto ciò avverrà, più probabile una uscita dall'euro che un taglio del debito.
diciamo che è anche un auspicio personale. Nonostante le molte colpe che abbiamo, se dobbiamo penare ancora e di più, per poi rimanere non competitivi in termini di prodotti e servizi (non sarà il taglio del debito a far si che copmreremo alfa al posto di bmw) meglio uscire e far saltare il banco.... avvertendo i nostri amiconi teutonici che l'abbandono dell'euro significa anche ridiscutere interamente le regole del mercato unico, cioè i tedeschi si scordino poi di venire in italia a fare shopping di aziende (controllo dei flussi di capitali)