Ci sono tanti modi di affrontare una crisi economica. Rahm Emanuel, ex chief of staff del presidente Obama raccomandava di non sprecare una crisi invano, cioè navigandola senza cogliere le opportunità di riforma e catarsi collettiva che i rallentamenti ciclici offrono.
Secondo me al nostro Paese questa crisi ne offre parecchi di spunti da cui partire per riformare la sua struttura industriale ed economica. Bisognerebbe però non sottovalutare che lo stratagemma del "muddle through", ossia di vivacchiare sperando che l'alta marea, cioè la ripresa globale, risollevi tutte le barche, comprese le carrette del mare.
Che le nostre difficoltà siano di un ordine di grandezza particolare emerge da una lettura anche solo superficiale delle statistiche internazionali. La scorsa settimana il World Economic Outlook dell'IMF ha pubblicato una tabella che mostra come nel decennio 1992-2001 l'economia italiana crebbe in media dell'1.6% all'anno, nettamente meno che le altre maggiori economie europee (Ger, Fra, Spa, UK). Non solo, la somma algebrica bruta delle variazioni percentuali annue di questi Paesi dal 2002 al 2010 (previsione) rende 7.5% per la Germania, 10.4% per la Francia, ben 17.2% per la Spagna e un eloquente 0.9% per l'Italia.
Siamo tutti convinti che le variazioni del PIL siano un indicatore imperfetto della capacità di un'economia di generare benessere. Ma fino a quando non troverò una misura meno imperfetta, ho l'impressione che questi pochi semplici numeri diano una fotografia fin troppo nitida delle nostre debolezze. Strutturali.
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