In uno studio in via di pubblicazione sul Journal of Financial Economics (Paulson's Gift), gli economisti Pietro Veronesi (che insegnò per 8 anni al Master in Moneta e Finanza della nostra Università) e Luigi Zingales della University of Chicago analizzano le conseguenze economiche del piano di salvataggio delle maggiori 10 banche statunitensi ideato nell'ottobre 2008 dall'allora segretario al Tesoro USA Hank Paulson. L'articolo è scaricabile da qui, mentre qui si può trovare una buona sintesi.
Gli autori dimostrano che il piano, che effettivamente impedì la definitiva autodistruzione del sistema bancario USA (e non solo), impose condizioni che si rivelarono estremamente vantaggiose soprattutto per i detentori di obbligazioni delle banche, mentre il guadagno netto per il Tesoro, che iniettò 125 miliardi di dollari di capitali freschi nelle banche sotto forma di azioni privilegiate, fu molto limitato.
Ancora più importante, le conseguenze di lungo termine del piano implicano che dopo di esso le grandi banche sono ancora più convinte che il governo interverrà in loro soccorso e ad ogni costo in futuri nuovi casi di potenziale insolvenza. Anche per questo motivo, che ha a che fare con una situazione chiarissima di moral hazard, le banche avranno un forte incentivo ad attuare pratiche e comportamenti più rischiosi, per se e per il sistema economico-finanziario, proprio perchè sanno di godere di un'implicita assicurazione collettiva. Altra ragione (vedi i due post precedenti) per imporre alle banche, soprattutto quelle maggiori, di dotarsi di cuscinetti di capitale particolarmente spessi.
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