29 ottobre 2010

Scusi, quanto dista la Grecia?

Come mostra il grafico in basso (click per ingrandire) con dati che arrivano al 2009, ciò che distingue maggiormente il rapporto debito pubblico/PIL Italiano rispetto a quasi tutti quelli degli altri Paesi europei è il suo livello e la sua tendenza alla stazionarietà/crescita, soprattutto dalla metà degli anni '90 in avanti. Da quel periodo, infatti molte altre economie, grazie anche a tassi di crescita più sostenuti, hanno visto scendere sensibilmente il loro indebitamento, nuovamente in crescita a partire dall'inizio della crisi nel 2007.


A parte gli esemplari Svedesi e Finlandesi (alte tasse e basso debito, formidabile!), la crisi ha colpito Irlanda, Spagna e UK quando questi Paesi registravano livelli relativamente contenuti di debito, e oggi stanno reagendo (forse anche troppo energicamente) per mantenerli al di sotto di livelli considerati inaccettabili per l'ipoteca che potrebbero imporre alla crescita futura.

L'Italia come al solito sembra in un mondo a parte. E non ci si può certo consolare per la vicinanza della Grecia.

27 ottobre 2010

Regalo di Paulson, ma finanziato dai contribuenti, anche quelli futuri

In uno studio in via di pubblicazione sul Journal of Financial Economics (Paulson's Gift), gli economisti Pietro Veronesi (che insegnò per 8 anni al Master in Moneta e Finanza della nostra Università) e Luigi Zingales della University of Chicago analizzano le conseguenze economiche del piano di salvataggio delle maggiori 10 banche statunitensi ideato nell'ottobre 2008 dall'allora segretario al Tesoro USA Hank Paulson. L'articolo è scaricabile da qui, mentre qui si può trovare una buona sintesi.

Gli autori dimostrano che il piano, che effettivamente impedì la definitiva autodistruzione del sistema bancario USA (e non solo), impose condizioni che si rivelarono estremamente vantaggiose soprattutto per i detentori di obbligazioni delle banche, mentre il guadagno netto per il Tesoro, che iniettò 125 miliardi di dollari di capitali freschi nelle banche sotto forma di azioni privilegiate, fu molto limitato.

Ancora più importante, le conseguenze di lungo termine del piano implicano che dopo di esso le grandi banche sono ancora più convinte che il governo interverrà in loro soccorso e ad ogni costo in futuri nuovi casi di potenziale insolvenza. Anche per questo motivo, che ha a che fare con una situazione chiarissima di moral hazard, le banche avranno un forte incentivo ad attuare pratiche e comportamenti più rischiosi, per se e per il sistema economico-finanziario, proprio perchè sanno di godere di un'implicita assicurazione collettiva. Altra ragione (vedi i due post precedenti) per imporre alle banche, soprattutto quelle maggiori, di dotarsi di cuscinetti di capitale particolarmente spessi.

26 ottobre 2010

Non siamo soli...

Buon tempismo (vedi post precedente):

BoE's King says Basel III is not enough to prevent crises

Mervyn King, governor of the Bank of England, said tougher rules established by the Basel Committee on Banking Supervision are not enough to prevent repeats of the financial crisis. "If it is a giant leap for the regulators of the world, it is only a small step for mankind," he said. "Basel III on its own will not prevent another crisis." King also said banks should reduce their reliance on short-term debt and raise more money from stock investors. "The broad answer to the problem is likely to be remarkably simple," King said. "Banks should be financed much more heavily by equity rather than short-term debt -- much, much more equity; much, much less short-term debt". (Bloomberg)

Costly talk

C'è un istruttivo parallelo tra la proposta della Commissione Europea sulla "governance economica" dell'Unione Europea, in particolare le parti concernenti i meccanismi di regolazione e sanzione degli squilibri di bilancio pubblico degli Stati Membri, e quella comunemente nota come "Basilea III", che riguarda i requisiti minimi di capitale delle banche.

Le autorità preposte si sono date il compito di progettare meccanismi in grado di impedire, rispettivamente, l'accumulo di deficit e debiti pubblici eccessivi, e il ripetersi di una crisi finanziaria sistemica come quella del 2007-2009. Il risultato più importante delle elaborate discussioni e contrattazioni sono due regole.

Basilea III fissa un nuovo rapporto minimo di capitale del 4.5%, più del doppio del livello previsto correntemente (2%), più un ulteriore 2.5%. Le banche il cui capitale ricade al di sotto di questo numero dovranno limitare la distribuzione di dividendi e bonus discrezionali; quindi il requisito effettivo è del 7%. Le nuove regole si applicheranno a partire dal Gennaio 2013 e diverranno definitive nel Gennaio 2019.
Il 7% rappresenta un cuscinetto troppo esile in presenza di perturbazioni dei mercati finanziari come quelle cui assistiamo da più di tre anni. In presenza di continua innovazione finanziaria, incertezza regolamentare e rischio sistemico da moral hazard (altro problema malamente affrontato dalle autorità nazionali e internazionali), sarebbe stato molto più appropriato identificare rapporti del 15 o 20% e centrarli su categorie "solide" di capitale, come le azioni. Inoltre, dare alle banche ben nove anni per adeguarsi alle nuove regole e forse per annacquarle attraverso attività di lobbying o cattura dei regolatori significa esporre il sistema finanziario al rischio di nuovi scossoni in presenza di altri episodi di instabilità finanziaria, sempre più frequenti.

Invece, la proposta della Commissione Europea, ancora in fase di rinegoziazione, fissa una serie di meccanismi disegnati per limitare un'eccessiva espansività delle politiche fiscali degli Stati Membri. Questi ricevono addirittura sanzioni pecuniarie se deficit e debiti nazionali non si incamminano su un percorso di convergenza su livelli bassi, come il 60% per il rapporto debito pubblico/PIL. Tuttavia, al termine di un'intensa attività di horse trading, la proposta prevede anche che le sanzioni e i vincoli vengano parecchio mitigati se il paese in questione vive una condizione di particolare stress macroeconomico, oppure se ha un livello contenuto di debito privato, e altro ancora. Insomma, da simulazioni ex post, pare che nessuno degli attuali Stati Membri rischi al momento di essere seriamente "richiamato".

La mancanza di credibilità dei meccanismi sanzionatori è chiaramente il limite comune di Basilea III e delle regole europee. Le nuove regole sul capitale sarebbero davvero efficaci se riuscissero a far scendere in misura significativa e molto prima del 2019 la quota dei profitti dell'industria finanziaria sui profitti totali dell'economia, e se soprattutto gli intermediari più grandi fossero costretti a rinunciare a quote importanti dei profitti per irrobustire fino appunto al 15-20% la propria capitalizzazione.
Se tre dei quattro paesi con il più alto rapporto debito pubblico/PIL al mondo (Italia, Grecia e Belgio) non rientrano tra i "cattivi" secondo la nuova governance economica europea, non si capisce che effetto disciplinante essa possa esercitare. Anche perchè i primi a violare la versione precedente di queste regole, il Patto di Stabilità e Crescita, furono i maggiori Paesi EU, Francia e Germania in testa, già nel 2002-2003.


In entrambi i casi si potrebbe parlare quindi di cheap talk, ossia di chiacchiericcio gratuito, sterile perché incapace di risolvere effettivamente i problemi. In realtà, visto che la fiducia nell'industria finanziaria e nel futuro stenta a ritornare tra investitori e consumatori, e visto che qualche effetto negativo i grandi debiti pubblici continuano ad esercitarlo, queste chiacchiere sono tutt'altro che cheap.

22 ottobre 2010

Il lungo periodo?

Vale sempre la pena dare uno sguardo periodico al celebre grafico di R. Shiller sulle valutazioni di lungo termine del mercato azionario. La serie storica più importante, il CAPE (Cyclically Adjusted Price Earnings Ratio), scala l'indice azionario statunitense S&P500 con la media mobile a 10 anni degli utili delle imprese quotate, offrendo così un indicatore del livello di valutazione del mercato non viziato dalla volatilità di breve termine degli utili.


Il dato al 5 ottobre mostra un valore di 21.17, al di sopra della media sull'intero campione, ma sostanzialmente al di sotto dei picchi vertiginosi degli ultimi 15 anni.

In prospettiva, tutto dipende dalla robustezza degli utili dei prossimi anni. Se la debolezza relativa del ciclo economico americano dovesse continuare a generare buoni utili ma a fronte di fatturati non entusiasmanti come accade in questi mesi, potremo guardare al valore non troppo elevato del PE di oggi come una valutazione realistica, o addirittura ottimistica. Restano fuori da queste congetture considerazioni relative all'inflazione e alla stabilità finanziaria, che come hanno mostrato gli anni '70 e 2000 hanno effetti notevoli nel medio-lungo termine sulle quotazioni.

20 ottobre 2010

Monopoly

Don't ask, don't tell...

Uno studio elaborato da Barclays Capital e diffuso ieri ha mostrato i risultati di un'indagine sulle opinioni di investitori e imprese nei confronti dei problemi legati alla crisi del debito sovrano in Europa.

L'82% dei quasi 600 clienti intervistati, che includono hedge funds, trading desks bancari e società di investimento, afferma di aspettarsi ancora una vera e propria crisi della zona euro, una ristrutturazione del debito o un default da un paese dell'area.

19 ottobre 2010

Chi sostiene il mercato azionario?

Tra gli analisti finanziari americani è ormai dominante la convinzione che agli inizi di novembre la Federal Reserve varerà un nuovo programma di quantitative easing, attraverso l'acquisto di titoli del Tesoro americano e altre attività finanziarie, forse anche private.

Lo scopo dichiarato dello stimolo in questione è quello di favorire ulteriormente le condizioni di accesso al credito da parte di imprese e famiglie, quindi sostenendone la domanda di investimenti e consumi.

Poiché i tassi di interesse, a breve come a lunga scadenza, sono già ai minimi storici di lunghissimo periodo (il rendimento sul T-bond decennale ha toccato il 2.3% qualche giorno fa) diversi economisti, anche all'interno della Fed, si interrogano sui benefici della manovra. 

Nessuno conosce gli effetti di politiche eterodosse così estese, che con i round precedenti hanno portato a una triplicazione del bilancio della Fed.

Ci sono poi interrogativi sulle reali intenzioni della Fed. Le aspettative inflazionistiche di lungo termine hanno cominciato a muoversi verso l'alto, evidenziando quindi che i mercati un certo  impatto inflazionistico lo intravvedono. Secondo alcuni però il vero obiettivo della Fed sarebbe un boost poderoso alle valutazioni di alcune categorie di asset, la cui rivalutazione sarebbe vista come cruciale per far ripartire, principalmente attraverso un effetto ricchezza, ma non solo, la domanda aggregata.

Quotazioni azionarie e immobiliari in forte ripresa potrebbero veramente essere i principali beneficiari del QE2. Tuttavia, i principali indici azionari sembrano aver già anticipato almeno una parte di questa ulteriore somministrazione di "liquidità ad alto potenziale". Le quotazioni immobiliari tendono a reagire più lentamente, mentre la discesa dei rendimenti sui bonds e l'impennata di oro e alcune materie prime segnalano che un primo rally da QE2 alcuni mercati lo hanno già vissuto.

Ci sono diversi rischi. Primo, il dollaro USA potrebbe accelerare il suo deprezzamento, innescando una rincorsa multilaterale alla svalutazione che alla fine danneggerebbe la domanda aggregata di tutti i Paesi. Secondo, se le aspettative di inflazione e di instabilità valutaria e finanziaria dovessero riprendere corpo, l'effetto netto sui tassi di interesse potrebbe addirittura essere al rialzo, con evidenti ripercussioni negative su congiuntura e finanza pubblica. Terzo, l'uscita dalla recessione 2007-2009 è da attribuire in larga parte a manovre fiscali e monetarie a grande scala, dalle quali l'espansione economica sembra essere diventata dipendente, con ovvie  controindicazioni.

Infine, è prudente far decidere alla banca centrale il livello "giusto", cioè coerente con l'equilibrio macroeconomico, di valutazione degli asset?

17 ottobre 2010

Primi!

The Economist di questa settimana, stavo navigando la colonna dei rendimenti dei mercati azionari internazionali, per vedere se il nostro si fosse schiodato dai bassifondi. Niente da fare, in dollari la nostra performance dal 31.12.2009 è sempre la terza peggiore dei tanti paesi in lista, meglio solo di Grecia e Spagna...

Poi, l'occhio cade sulla tabella in fondo alla pagina, e lì, invece, l'Italia è PRIMA, addirittura quasi doppiando quei perfezionisti dei tedeschi!

Peccato, si tratta della classifica mondiale del controvalore dei contratti CDS (credit default swaps) sul debito sovrano all'8 ottobre 2010. 28.5 miliardi di dollari di valore nozionale, per un CDS spread di 180 punti base. 

Il nostro è tra i debiti pubblici più elevati al mondo, ma la tabella chiarisce che probabilmente è solo in parte per questa ragione quantitativa assoluta che gli investitori domandano così spesso protezione contro il rischio di default dal nostro debito pubblico. In altri termini, si fa largo l'impressione che il livello del debito sia molto prossimo a una soglia critica di sostenibilità.

Anche secondo me a questo problema la politica economica dovrebbe dedicare maggiore attenzione. Ma dovrebbe farlo tenendo soprattutto presente che un indebitamento così elevato ha con ogni probabilità (e secondo una letteratura empirica sempre più chiara) riflessi molto pesanti sulla crescita economica. Soprattutto su produttività e redditività degli investimenti.

Su questo sto facendo una ricerca insieme a un collega australiano. I'll keep you posted!

13 ottobre 2010

Congiunturale o strutturale?

Ci sono tanti modi di affrontare una crisi economica. Rahm Emanuel, ex chief of staff del presidente Obama raccomandava di non sprecare una crisi invano, cioè navigandola senza cogliere le opportunità di riforma e catarsi collettiva che i rallentamenti ciclici offrono.

Secondo me al nostro Paese questa crisi ne offre parecchi di spunti da cui partire per riformare la sua struttura industriale ed economica. Bisognerebbe però non sottovalutare che lo stratagemma del "muddle through", ossia di vivacchiare sperando che l'alta marea, cioè la ripresa globale, risollevi tutte le barche, comprese le carrette del mare.

Che le nostre difficoltà siano di un ordine di grandezza particolare emerge da una lettura anche solo superficiale delle statistiche internazionali. La scorsa settimana il World Economic Outlook dell'IMF ha pubblicato una tabella che mostra come nel decennio 1992-2001 l'economia italiana crebbe in media dell'1.6% all'anno, nettamente meno che le altre maggiori economie europee (Ger, Fra, Spa, UK). Non solo, la somma algebrica bruta delle variazioni percentuali annue di questi Paesi dal 2002 al 2010 (previsione) rende 7.5% per la Germania, 10.4% per la Francia, ben 17.2% per la Spagna e un eloquente 0.9% per l'Italia.

Siamo tutti convinti che le variazioni del PIL siano un indicatore imperfetto della capacità di un'economia di generare benessere. Ma fino a quando non troverò una misura meno imperfetta, ho l'impressione che questi pochi semplici numeri diano una fotografia fin troppo nitida delle nostre debolezze. Strutturali.