25 novembre 2010

Stress estivi e collassi invernali

La scorsa estate vennero eseguiti nell'area dell'euro gli ormai celebri stress tests sulle maggiori banche commerciali dell'area. I risultati furono largamente positivi, nel senso che la patrimonializzazione e approvvigionamento di liquidità della stragrande maggioranza degli intermediari sottoposti alle prove vennero presentati come di entità sufficiente da mettere le banche al riparo da rischi di instabilità a fronte di nuovi scossoni dei mercati.

Non mancarono dubbi e polemiche. Da parte di alcuni osservatori si sostenne che i tests mancavano di rigore, perchè per esempio finivano con il diluire il peso dei titoli del debito pubblico detenuti nei bilanci bancari, oppure perchè gli scenari simulati di instabilità finanziaria e macroeconomica apparivano un po' ottimistici.

Le quotazioni persistentemente traballanti di alcuni gruppi bancari europei (anche italiani) lasciano pensare che la loro patrimonializzazione venga percepita dai mercati come tutt'altro che solida.

Ci sono due possibilità.

La prima è che quei tests erano pura finzione, laddove, per esempio, non facevano emergere alcuna problematica significativa per nessuna delle maggiori banche irlandesi per le quali oggi si prospetta un altro round di salvataggi disperati.

La seconda è che i mercati finanziari stiano in realtà scommettendo contro la capacità delle banche di attraversare indenni la congiuntura macroeconomica e le riforme dell'assetto regolamentare che le riguarda. Quella scommessa sembra mettere molto sulla difensiva le autorità monetarie europee, che appaiono incapaci di adottare una strategia credibile di uscita dalla crisi del debito in Europa.

In entrambi i casi sarebbe opportuno ripetere, questa volta in maniera severa, i tests, soprattutto con uno sguardo più occhiuto a realtà bancarie di impatto sistemico più rilevante, e alla luce di scenari macroeconomici più realistici.

Probabilmente ne scaturirebbe una realtà molto meno rassicurante di quella emersa la scorsa estate.

23 novembre 2010

Due spread e due lettere

Il Financial Times del 15 Novembre ha pubblicato una lettera del Direttore Generale del Tesoro Italiano, Vittorio Grilli, in cui il nostro autorevole funzionario lamenta un evidente errore presente in un precedente grafico del giornale, in cui si era erroneamente equiparato la situazione fiscale del nostro Paese a quella dell'Irlanda (Human error magnified on a diabolical scale).

Ora, è pacifico che errori così evidenti dovrebbero essere accuratamente evitati. Il Financial Times è così autorevole proprio perché la sua informazione e analisi sono da sempre di diverse spanne più precise e indipendenti di quanto si trovi sui nostri giornali nazionali.

E' altrettanto pacifico che l'Italia non è come l'Irlanda. La quale però alcuni mesi fa sosteneva di non essere come la Grecia, che a sua volta prometteva di non fare come l'Argentina. In effetti, in questi giorni lo spread dei nostri titoli di stato a 10 anni rispetto ai bund tedeschi è meno di 1/3 del livello irlandese.

Vittorio Grilli è al Ministero dell'Economia dal 1994, tranne che per qualche breve parentesi. Lavora quindi da 16 anni al vertice dell'autorità fiscale di un Paese che quest'anno registrerà un rapporto debito/PIL del 118%, paga 75 miliardi all'anno di interessi su questo debito, e proprio pochi giorni fa ha totalizzato un misero 58/100 nell'Open Budget Survey 2010, indicatore internazionale di trasparenza e efficienza nella gestione del debito pubblico, dietro a fuoriclasse del calibro di Sri Lanka, Ucraina, Colombia e Mongolia (i Paesi migliori sono molto distanti).

All'inizio del 1991 Mario Sarcinelli si dimise da Direttore Generale del Tesoro. Nella lettera di dimissioni Sarcinelli scriveva:

"...Sin dai tempi del liceo, studiando filosofia, etica e morale mi sono sempre chiesto quale è il meccanismo che trasforma in un complice un collaboratore tecnico che lealmente pone a disposizione dei superiori [...] le proprie capacità, competenze e conoscenze per il conseguimento degli obiettivi a lui indicati. Ebbene, non esistendo alcun metodo oggettivo, l'unico al quale si può far ricorso è quello soggettivo; allorché il collaboratore ha dubbi sulla volontà effettiva di coloro che hanno il comando di conseguire gli obiettivi ritenuti indispensabili per la salvezza del Paese [...] egli ha il dovere di dimettersi e se possibile di far conoscere le ragioni del suo abbandono. [...]".

L'Italia non è come l'Irlanda. E evidentemente Grilli ha molti meno dubbi di Sarcinelli.

Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur

Sono almeno tre settimane che si parla di salvataggio ("bailout") dell'Irlanda da parte dell'Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale. I dettagli sembrano praticamente tutti definiti, dall'ammontare complessivo (intorno ai 90 miliardi di euro), alla fetta di tale cifra che ricadrebbe sullo European Financial Stability Fund, il veicolo europeo attivato nella scorsa estate per fronteggiare questa situazioni.

Curiosamente però, l'accordo a portata di mano incontra da giorni ostacoli apparentemente incomprensibili. Al punto che il governo irlandese in carica sta disfacendosi, lasciando il Paese in un pauroso vuoto di responsabilità.


La ragione di tutti questi ritardi sembra che stia in una questione molto semplice: in cambio del sostegno finanziario i Paesi EU chiedono dal governo un impegno a risanare rapidamente i conti del Paese, cominciando da un deciso aumento delle entrate fiscali, e in particolare di quelle legate ai redditi societari.

In effetti, il grafico in basso (click per ingrandire) mostra che il 12.5% irlandese è la più bassa tra le aliquote dei Paesi OECD. Questo spiega l'enorme capacità di attrazione di Dublino per gli investimenti esteri, e il fatto che l'Irlanda sia diventata nel corso degli anni '90 e 2000 l'epicentro di una frenetica attività di localizzazioni (più o meno reali) di tante multinazionali.


Tuttavia, qualche dato ulteriore dimostra che le entrate fiscali di Dublino o di qualunque altro Paese dipendono solo in misura marginale dalle imposte sul reddito societario (3.4% del GDP, contro una media dei Paesi OECD del 3.5%; la Germania incassa solo il 2.2%).

Quindi, è del tutto strumentale bloccare le trattative EU-Irlanda, come stanno facendo le autorità europee, su questa questione di principio. Meglio, diversi membri EU stanno sicuramente approfittando delle difficoltà irlandesi per regolare una partita aperta con quel Paese in tema di concorrenza fiscale: se Dublino aumenta il carico fiscale, qualcun altro si vedrà "regalata" una bella fetta di investimenti diretti all'estero (FDI) in uscita.

Mentre Dublino brucia, a qualcuno viene l'acquolina in bocca. Peccato però che a bruciare non sia solo Dublino...

21 novembre 2010

C'è qualcosa che non funziona...

Federica Bosio, Paola Ferrari, Andrea Battagliola e Antonio Trombini, studenti del mio corso di Teoria degli Investimenti, hanno elaborato un accurato studio sulla performance relativa del mercato azionario italiano rispetto ai principali indici azionari europei e globali per gli ultimi 10 anni.

Il risultato principale è che in termini di rendimento i nostri principali indici hanno fatto molto peggio di quasi tutti i benchmarks, e si sono anche distinti per elevata volatilità. Il grafico in basso (click per ingrandire) ne è una testimonianza molto chiara.


Naturalmente le ragioni di questa prestazione deludente (il mercato italiano oggi vale poco più del 40% del suo livello di 10 anni fa, mentre per esempio l'indice tedesco DAX vale circa l'80%) sono molteplici e tutt'altro che facilmente determinabili. La scarsa capacità dell'economia italiana di generare crescita, profitti e benessere quanto i suoi peers dovrebbe comunque essere parte della spiegazione, o no?

16 novembre 2010

Don't look back in anger...

Dorina Tagliani, Paolo Cattafesta, Mattia Ribola e Matteo Rosina, studenti del mio corso di Teoria degli Investimenti, hanno preparato una bella analisi di performance sulle asset classes di maggior successo degli ultimi 10 anni. Il grafico in basso riporta l'andamento normalizzato delle serie storiche (click per ingrandire):


Le categorie caratterizzate da rendimenti complessivi più elevati (ma anche volatilità maggiore) includono indici azionari di paesi emergenti come Brasile, India, Indonesia e Cina, e indici riguardanti materie prime o metalli preziosi. Insomma, i grandi vincitori di questo decennio sono direttamente o indirettamente le commodities e i paesi ad elevata crescita industriale. Cosa ci prepara il prossimo decennio?

11 novembre 2010

La ripresa dipende dalle banche

Un gruppo di autorevoli economisti finanziari ha inviato una lettera aperta al Financial Times (Much More Bank Equity Is Needed and Is Not Socially Costly) in cui sollecita le autorità di regolazione bancaria e finanziaria del mondo a rafforzare in misura molto significativa i requisiti di capitalizzazione degli intermediari finanziari.

La linea del loro ragionamento è netta.

L'evidenza teorica ed empirica disponibile dimostra che i costi della raccolta bancaria non sono influenzati dai requisiti di capitale, come invece sostengono le associazioni bancarie. Al contrario, un eccesso di leva finanziaria tende a distorcere incentivi e comportamenti delle banche, con forti rischi a carico di creditori e contribuenti, come l'ultima crisi ha ampiamente dimostrato. 

Inoltre, l'impiego come quasi-capitale, consentito dagli accordi di Basilea in base a un sistema risk-weighted, di strumenti sintetici diversi dal semplice capitale azionario, determina un aumento del rischio sistemico e un indebolimento dei poteri regolatori delle autorità.

Per queste ragioni, il gruppo di economisti afferma che "i meccanismi di finanziamento degli investimenti migliorerebbero con [l'adozione, n.d.c] di requisiti di capitale più elevati e appropriati" rispetto a quelli prospettati dal recente accordo di Basilea III.

Questa rigorosa presa di posizione dimostra che la preoccupazione circa il ripetersi di crisi sistemiche come quella vissuta nel 2008-2009 è condivisa da una parte non irrilevante del mondo accademico.

L'adozione (o la mancata adozione) di decisioni vincolanti in misura sostanziale il comportamento degli intermediari finanziari ha implicazioni di forte impatto sulla stabilità finanziaria dei prossimi anni. Ma anche sulle chances che il sistema economico ha di imboccare un sentiero di crescita finanziariamente sostenibile, che al momento ancora non si vede.

5 novembre 2010

Tutto quello che volevate sapere e non avete ancora capito del QE2

Bellissimo intervento didascalico di Campbell Harvey (Duke University) sul QE2, da The Street. Credo abbia ragione.

4 novembre 2010

This time is really different

In un intervento estremamente interessante sul Washington Post di oggi, Ben Bernanke difende la decisione di ieri del FOMC di estendere di 600 miliardi di dollari il programma di acquisto di Treasuries a lunga scadenza da parte della Fed.

Nell'articolo, il chairman chiarisce molto bene le motivazioni della decisione:

"This approach eased financial conditions in the past and, so far, looks to be effective again. Stock prices rose and long-term interest rates fell when investors began to anticipate the most recent action. Easier financial conditions will promote economic growth. For example, lower mortgage rates will make housing more affordable and allow more homeowners to refinance. Lower corporate bond rates will encourage investment. And higher stock prices will boost consumer wealth and help increase confidence, which can also spur spending. Increased spending will lead to higher incomes and profits that, in a virtuous circle, will further support economic expansion."

Bernanke negli anni scorsi aveva più volte affermato che non è appropriato che la banca centrale intervenga per evitare il formarsi di bolle speculative nei mercati degli assets. L'opinione dominante nel central banking è che nel tentativo di rallentare la dotcom mania della fine degli anni '90 e l'irresistibile ascesa del settore immobiliare dal 2002 in avanti, fenomeni a monte delle ultime due recessioni, i rischi di una manovra restrittiva di politica monetaria supererebbero, per varie ragioni, i benefici.

Oggi apprendiamo invece che in questa visione la crescita dei prezzi degli assets è diventata un obiettivo (intermedio?) della politica monetaria.

Dalla Greenspan put alla Bernanke put. Se solo funzionasse...

3 novembre 2010

Le 50 banche più grandi del mondo

Il bel grafico qui sotto tratto da The Banker (click per ingrandire) mostra il ranking delle più 50 grandi banche del mondo, la dimensione dei rispettivi assets, la loro capitalizzazione di mercato corrente e la sua variazione negli ultimi dodici mesi:



Da notare che le banche in assoluto più grandi sono britanniche, tedesche e francesi, e che il valore di mercato del settore continua a scendere vistosamente...

2 novembre 2010

E gli USA?

Bel grafico sul debito pubblico netto (ossia quello detenuto da investitori privati) degli USA, in percentuale sul PIL, dal 1790 al 2009 (click per ingrandire):