27 luglio 2012

O la va o la spacca, Frankfurter style...

Le prossime due settimane saranno particolarmente interessanti per l'eurozona. Le dichiarazioni del Presidente Draghi di ieri hanno reso inevitabile per i mercati concentrarsi, in caso di rinnovata pressione sui prezzi dei titoli di stato dell'eurozona, su una sola e molto chiara alternativa:
  1. Se la ECB effettivamente darà corso alla promessa di fare "whatever it takes" per salvare la situazione e riattiverà il Securities Markets Programme (acquisti di titoli periferici sul mercato secondario) oppure procederà ad altre operazioni straordinarie, magari ancora al limite tra politica monetaria, fiscale e finanziaria, allora vorrà dire che le resistenze dei paesi "core" a un impiego ardito degli strumenti a disposizione della ECB sono state vinte davvero. Dubito che ciò risolverebbe definitivamente la crisi, che invece richiede di arrivare in tempi quasi irragionevolmente stretti a un'unione fiscale piena o a una caparbia ristrutturazione dei debiti periferici. Personalmente non credo che Germania, Olanda, Finlandia e gli altri paesi core si siano realmente riorientati in tal senso, per cui attribuisco a questo scenario una probabilità relativamente bassa di verificarsi: 20%.
  2. Se invece la "promessa" di Draghi restasse lettera morta, o sostanzialmente tale, a fronte di rinnovati shocks agli spread e ai corsi azionari, il danno reputazionale ed operativo al funzionamento dell'Unione Monetaria sarebbe enorme, forse irreversibile. Quand'anche eventuali interventi della ECB fossero concordati con il gruppo core, ma restassero nel solco dei passati acquisti SMP o delle LTRO di dicembre 2011 e febbraio 2012, i loro effetti sarebbero confinati a un beneficio di breve, forse brevissimo respiro. Questo scenario mi sembra di gran lunga il più probabile: 80%.
Anch'io penso che l'attuale situazione sui mercati impedisca, come sostiene Draghi, la normale trasmissione della politica monetaria. Resto convinto però che la politica monetaria non sia in grado di affrontare e risolvere problemi strutturali della nostra "unione monetaria senza unione fiscale", come la mancanza di competitività, la fragilità bancaria e l'eccesso di spesa pubblica. Anzi, il rischio di un'eccesso di responsabilizzazione della politica monetaria è che si esasperino distorsioni e fragilità che rendono ancora più difficile l'aggiustamento. L'aumento del profilo di rischio dei portafogli bancari seguito agli acquisti di debito sovrano con la liquidità erogata dalle LTRO nè è un esempio lampante.

24 luglio 2012

Dall'incertezza al collasso

C'è un robusto filo rosso che unisce le ragioni di fondo della recessione/stagnazione che il nostro e altri Paesi stanno vivendo con la persistente instabilità sui mercati finanziari di questi anni.

Uno dei canali di trasmissione più diretti è quello legato al ruolo dell'incertezza.

Un'impresa italiana che sta prendendo in considerazione un'importante decisione di investimento fronteggia diversi livelli di incertezza. La volatilità della domanda probabilmente le impedisce un'analisi di mercato sufficientemente chiara da consentirle una stima affidabile dei flussi di vendita attesi. I cambiamenti nelle condizioni di accesso al credito intervenuti negli ultimi anni la possono convincere a intravvedere solo variazioni peggiorative. I dubbi, diciamo pure lo scetticismo generalizzato, sulla situazione della finanza pubblica italiana, indicano che il carico fiscale potrebbe crescere ulteriormente, per il reddito di impresa e forse ancora di più per i fattori produttivi, capitale e lavoro. E così via.

Consumatori e investitori in media non possono che soffrire circostanze molto simili di elevata incertezza. Di fronte alle quali la reazione meno preoccupata è lo stand-by nei piani di consumo e investimento; quella più verosimile una riduzione precauzionale di entrambi, con ovvie ripercussioni a livello aggregato. Di fronte a incertezze fondamentali sul livello futuro della tassazione del reddito, dei contributi e delle prestazioni previdenziali, non esistono reazioni più razionali.

La cura: le autorità di politica economica dovrebbero "cancellare la lavagna" e mettere nero su bianco pochi, comprensibilissimi e credibili piani per restituire certezze a consumatori, investitori e imprese. Attenzione, qui la parola più importante è: "credibili". Quando il ministro dello sviluppo economico annuncia in giugno un piano di investimenti pubblici da 80 miliardi che a luglio egli stesso ammette trattarsi di un più modesto riordino di incentivi esistenti con un apporto di nuove risorse al massimo pari a 2 miliardi, l'effetto depressivo sulle aspettative degli individui e delle imprese è terribile. Oppure, quando mezzo governo, primo ministro incluso, ogni 5 minuti sostiene che i conti pubblici sono in sicurezza, salvo poi dover ricorrere a condizioni capestro sui mercati obbligazionari per rifinanziare pochi miliardi di debito, la scena ricorda più quella del naso a geometria variabile di Pinocchio davanti alla fatina che a implacabili docenti bocconiani di economia davanti ai rozzi speculatori internazionali. E gli esempi potrebbero continuare, dalla solvibilità delle banche, alle prospettive del PIL, ecc.

La cura, dicevamo. Impensabile a questo punto sperare di superare questa crisi senza una qualche ristrutturazione dello stock di debito. Un'operazione che ne abbatta di almeno 200-300 miliardi di euro il valore nominale. I modi ci sono, anche relativamente semplici. A patto che si accetti di infliggere qualche perdita in conto capitale ai bondholders. In aggiunta, dismissioni di quote significative del patromonio pubblico, a partire dall'infinito arcipelago di aziende controllate e partecipate dallo Stato Centrale e dalle amministrazioni locali. Anche qui, fare i furbi non pagherebbe: cedere queste proprietà alla Cassa Depositi e Prestiti sarebbe una semplice partita di giro, per di più ulteriormente peggiorativa dell'attuale decrepita struttura familistico-amorale del capitalismo italiano. Infine, un'impietosa imposta addizionale progressiva sui patrimoni mobiliari e immobiliari, a partire da quelli delle società, con cui finanziare un potente sgravio fiscale sulle attività di investimento "reali" e sul lavoro.

Sono tutte cose tecnicamente fattibilissime, e dagli effetti molto significativi. Se non se ne vede l'ombra, è solo perchè interessi fortemente concentrati, fondazioni bancarie, lobbies occulte, cricche e cosche varie riescono a condizionare fortemente l'attività esecutiva, legislativa e anche il dibattito di politica economica del nostro Paese, fino a trascinarlo al punto in cui siamo, cioè al collasso. 

16 luglio 2012

Tutto quasi inutile. Come previsto

Per i tanti scandalizzati delle opinioni di Moody's o di S&P's, purtroppo il più paludato Fondo Monetario Internazionale non offre molto sostegno.

Nei giorni scorsi il Fondo ha pubblicato svariate nuove proiezioni sull'economia del nostro Paese, tra cui il corposo Country Report No. 12/167, contenente una minuziosa e molto bilanciata analisi della nostra situazione economica.

Tra le tante proiezioni disincantate e molto allarmanti, quelle sulla traiettoria del debito pubblico. Era al 120% del PIL alla fine del 2011, anno di grandi e onerose manovre di finanza pubblica che hanno dispiegato effetti recessivi molto consistenti.

Alla fine del 2012, dopo innumerevoli provvedimenti di aumento della pressione fiscale e qualche riduzione temporanea delle spese, salirebbe al 125.8%. Quindi, un incremento di quasi sei punti di PIL. Senza manovre, forse avremmo avuto un'economia più vivace, ma forse anche un debito ancora più elevato.

Le previsioni IMF per 2013 e 2014 parlano di una possibile decelerazione dell'incremento, con picco al 126.4% l'anno prossimo. Si tratta però di stime con ampia banda di incertezza, basate su ipotesi relative alla congiuntura internazionale, alla situazione dei mercati finanziari e a quella delle politiche monetarie, tutt'altro che scontate.

L'aspetto più significativo, tuttavia, è la distanza siderale tra l'infantile ottimismo scodellato sulle pagine dei nostri principali quotidiani dai governi in carica attuale e precedenti, e la dura realtà dei numeri. L'Italia è un Paese sospeso tra insolvenza pubblica, depressione economica.

Altre realtà nelle stesse condizioni strutturali hanno trovato il coraggio e l'umiltà di riformarsi con rigore e ripartire. Al nostro Paese difetta cronicamente la capacità di prendere coscienza della serietà della situazione. Inoltre, l'establishment economico e politico è troppo invischiato in conflitti di interesse per avviare riforme in grado di incidere significativamente sulla situazione, come un programma deciso di vendite del patrimonio pubblico e una riduzione razionale della spesa pubblica. Provvedimenti che in ogni caso potrebbero essere ormai tardivi e insufficienti.

Se ne verrà fuori comunque, in questi mesi stiamo semplicemente quanto costoso sarà, per la nostra collettività e in chiave redistributiva, del ritorno alla realtà. E' già molto alto, rischia di essere terribile.   

2 luglio 2012

Brescia e il credit crunch - Seconda parte


(Continua dal post precedente)...
La crisi finanziaria a partire dal 2007 ha comportato ulteriori assottigliamenti del capitale proprio delle banche italiane e una drammatica e persistente fase di indebolimento della loro capacità di raccolta della liquidità. Queste difficoltà si sono ulteriormente acuite con la più recente fase di turbolenza legata alla crisi debitoria nell’area dell’euro e alla debolezza del sistema economico italiano. Alla loro relativa sottocapitalizzazione gli istituti hanno reagito solo in minima parte attraverso la raccolta di mezzi propri freschi, e in larga misura invece con una sostenuta attività di deleveraging, ossia con una consistente riduzione degli impieghi, che ha amplificato il credit crunch. A questa logica non si sono sottratte neanche le recenti operazioni straordinarie di rifinanziamento della BCE, che non si sono finora tradotte in apprezzabili aumenti dei prestiti, se non agli Stati sovrani periferici sotto forma di acquisti di titoli di stato a breve e media scadenza. Il che ha ulteriormente peggiorato il profilo di rischio degli attivi bancari, come si vede dal feedback loop che in questi giorni lega il rischio sovrano e i corsi azionari delle banche italiane e spagnole.

I riflessi “bresciani” di queste tendenze nazionali sono particolarmente severi. La costituzione dei nuovi gruppi bancari ha comportato un notevole deterioramento nelle già difficili relazioni tra banche e imprese del territorio, che fino a pochi anni fa potevano contare su un significativo, anche se sempre problematico, radicamento degli intermediari finanziari. La crescita dimensionale di questi ultimi, lo snaturamento della vocazione territoriale e l’adozione di modelli di business più orientati alle attività di investimento e di trasferimento dei rischi piuttosto che a quelle tradizionalmente concentrate sul finanziamento delle attività produttive, hanno privato il tessuto imprenditoriale bresciano di un fondamentale canale di approvvigionamento di risorse finanziarie, anche in misura superiore rispetto ad altre province. I nuovi grandi gruppi hanno inoltre adottato politiche di standardizzazione delle pratiche creditizie che hanno mortificato il carattere fortemente segmentato del segmento corporate.

Le PMI hanno risentito in misura particolare di queste tendenze, perché più strettamente vincolate al credito bancario per le proprie necessità e meno in grado di attivare canali alternativi di raccolta rispetto ad imprese meglio strutturate. Nonostante lodevoli tentativi di controbilanciare il credit crunch attraverso strumenti come i consorzi fidi o le garanzie collettive, l’effetto di restrizione creditizia è stato, anche nel 2011 e nell’anno in corso, particolarmente pesante. Le operazioni aziendali maggiormente penalizzate sono ovviamente quelle che richiedono investimenti più rilevanti, quindi le ristrutturazioni dei processi produttivi, l’adozione di nuove linee o processi di produzione, la riorganizzazione aziendale. Si tratta di operazioni cruciali per garantire l’adattamento delle imprese a un contesto sempre più aperto alla concorrenza e orientato all’innovazione e alla qualità dei prodotti. In altri termini, la fase di grandi trasformazioni strutturali che stiamo vivendo comporta per le imprese una molteplicità di operazioni di riorganizzazione complesse ed onerose sul piano dei fabbisogni di capitale, e questo spiega perché la mancanza di credito per le attività di questo genere si stia tragicamente riflettendo in mancata ripresa dell’attività produttiva.

Come se ne esce? Tornando ai fondamentali, quindi a banche la cui operatività corporate parta dalla costruzione attenta e meticolosa di un rapporto di lungo termine con il tessuto imprenditoriale territoriale, in un’ottica di concorrenza vera tra intermediari, di vigilanza occhiuta e indipendente sui loro bilanci, e di patrimonializzazione solida e non viziata da artifici contabili e compiacenze regolamentari. Questa prospettiva implica, nel breve-medio termine, una messa in discussione del ruolo delle fondazioni bancarie e degli attuali assetti proprietari dei gruppi. Forse anche il ritorno limitato e temporaneo, alla “svedese”, dello Stato nel loro capitale. Se questo è il prezzo da pagare per avere banche che finalmente si concentrano sul loro compito fondamentale, cioè di intermediare efficientemente i flussi di fondi tra risparmi e investimenti, perché escludere opzioni coraggiose? Never waste a serious crisis...