27 dicembre 2010

130 anni

Non sono d'accordo con il titolo del grafico di J. Montier (l'unica costante è che tutto cambia!), che tuttavia offre un'irresistibile prospettiva storico-economica in un solo sguardo (click per ingrandire).

Come in innumerevoli altri casi dell'avventura umana, ci sono alcuni tratti ricorrenti nella storia finanziaria. La differenza tra cronaca e analisi sta proprio nel riconoscere l'importanza del cambiamento continuo, ma anche delle determinanti fondamentali dei processi economici. La tendenza dell'indice P/E a muoversi in direzioni abbastanza prevedibili in prossimità di valutazioni estreme è sicuramente una di queste regolarità.

25 dicembre 2010

Nuova moneta e spinte inflattive: tra il dire e il (poter) fare...

Se acquisto un T-bond (un titolo del Tesoro USA) devo impiegare miei fondi, oppure liquidare altre posizioni in attività per mettere insieme il denaro necessario al fine di acquistare il titolo.

In alternativa, potrei prendere in prestito denaro da una banca e usare i fondi per comprare il titolo "al margine".

Se è una banca centrale - diciamo la Federal Reserve - ad avere lo stesso problema, lo risolve in un altro modo.

Semplicemente accredita all'istante il conto di deposito che il venditore del titolo di stato - una banca commerciale - ha presso di essa. A sua volta, il venditore gira i titoli di stato o le mortgage backed securities alla Fed, che in pratica crea elettronicamente nuova moneta.

Tutta questa moneta, tuttavia, nonostante le pie intenzioni della Fed, non si sta diffondendo granchè nell'economia. La maggior parte è semplicemente parcheggiata nei depositi - chiamate riserve - delle banche commerciali presso la Fed. E' questa la ragione per cui le misure ufficiali dell'offerta di moneta non hanno sinora evidenziato un aumento significativo, che invece si manifesta quando cresce l'ammontare di fondi effettivamente dati in prestito da parte delle banche commerciali. Se dall'inizio del 2008 le riserve bancarie presso la Fed sono passate da 33 a quasi 1000 miliardi di dollari, la moneta in circolazione è cresciuta "solo" del 18%, e la definizione più ristretta di M2 del 3.3% appena.

Supponiamo che a un certo punto gli "spiriti animali" si risveglino e comincino a domandare consistentemente nuovi fondi per investimenti e consumi, così che le banche commerciali traducano in misura massiccia quelle riserve in nuovi impieghi creditizi. Cosa ci salverà, a quel punto, dal potente impulso inflazionistico che molti osservatori, diversi dei quali abbastanza autorevoli, temono da un paio d'anni?

I vertici della Fed rassicurano di avere a disposizione una molteplicità di strumenti per prosciugare l'esorbitante liquidità immessa in questi anni. Una delle possibili leve è il tasso di interesse che la Fed paga sui depositi delle banche commerciali presso di essa. Al momento quel tasso è solo lo 0.25%, e aumentandolo si potrebbe rendere più graduale lo spostamento della liquidità verso un impiego creditizio a ritmi inflazionistici.

Non c'è dubbio che alla Fed non manchino strumenti tecnici in grado di influenzare l'allocazione dei fondi a disposizione delle banche commerciali.

I rischi maggiori riguardano però la reale possibilità che i banchieri centrali avranno di contrapporsi alle richieste di perseverare nel sostegno all'attività economica, specialmente se la ripresa dell'occupazione e dei consumi continuerà a configurarsi come flebile e legata proprio agli interventi delle politiche monetarie e fiscali.

17 dicembre 2010

Questione capitale

Ancora ieri veniva ribadito in sedi molto autorevoli che le banche italiane hanno solida capitalizzazione e che soffriranno in misura limitata per l'entrata in vigore dei nuovi requisiti di capitalizzazione dell'accordo di Basilea III.

In realtà, è anche emerso che dovranno adeguare il loro capitale per almeno 40 miliardi di euro, mentre un'altra provvista di circa 12 miliardi dovrà essere destinata a rimpolpare il fondo di assicurazione sui depositi.

L'indice FTSE MIB a oggi ha perso circa il 2.4% negli ultimi 6 mesi. Nello stesso arco temporale, i titoli dei principali gruppi bancari italiani hanno vissuto performances estremamente deludenti: Unicredit -16%, Intesa Sanpaolo -9.5%, UBI -11%, Banca MPS -12%, Banco Popolare -29%, mentre l'indice settoriale FTSE Italia Banche è sceso del 12.8% circa.

I mercati quindi non condividono granché quelle rassicurazioni, anzi, sebbene rimangano piuttosto scettici sugli effetti realmente stabilizzanti delle nuove norme sul capitale delle banche (vedi per esempio nostri post qui e qui), continuano a punire i titoli delle banche (non solo italiane).

Questo probabilmente accade perché gli investitori sono convinti che di fronte agli effetti dell'ennesima tempesta finanziaria, questa volta del debito pubblico di alcuni paesi europei, il patrimonio degli intermediari bancari sia tutt'altro che sufficiente.

Quale migliore dimostrazione che anche sulla questione della patrimonializzazione delle nostre banche è tempo di abbandonare la retorica rassicurante e adottare rapidamente rigorosi provvedimenti di rinforzo, rivedendo per esempio i piani per le prossime distribuzioni di dividendi?

14 dicembre 2010

L’insostenibile leggerezza del tirare a campare

L’economia italiana, al traino dei suoi principali mercati di sbocco, nel 2010 ha ricominciato a crescere, di circa l’1% all’anno. Tuttavia, soprattutto vista dal mercato del lavoro, questa ripresa somiglia molto a una recessione. In realtà, economia e società italiana usciranno dalle secche solo dopo una profonda trasformazione civile e di mentalità.

Mille indicatori confermano che l’economia italiana sta vivendo una crisi al quadrato. Una crisi congiunturale, partita con un tracollo degli ordinativi industriali, poi di produzione e consumi, e infine delle prospettive occupazionali. Questo dentro una crisi strutturale della nostra capacità di generare benessere diffuso, in corso da almeno un quindicennio. Fra i 30 paesi dell’OECD, il prodotto medio di un’ora lavorata è sceso negli ultimi dieci anni solo in un paese: il nostro. L’organizzazione del lavoro e delle aziende in Italia è mediamente inefficiente,  e le famiglie italiane vivono da molti anni una decisa perdita di potere d’acquisto.

La nostra è una società sempre meno giovane, quindi meno dinamica e innovativa. Ma anche dominata da una visione dello Stato come motore e trasmissione dell’economia, mentre in economie più vivaci lo Stato regola con efficienza l’iniziativa privata e sostiene pragmaticamente le infrastrutture materiali e immateriali per la crescita.

Questa crisi ha risolto la tensione tra le due forme di intervento pubblico. Semplicemente l’Italia non può più permettersi i termini attuali della sua organizzazione. I nostri conti pubblici sono a un passo dalla sostanziale insolvenza di Grecia, Irlanda e Portogallo, e oltre a limitare fortemente gli investimenti pubblici, il loro squilibrio ha pure distorto il mercato del lavoro, quello dei capitali, la politica.

I giovani sono il cuore del problema, e al tempo stesso la risorsa per risolverlo. Il nostro sistema educativo è così malconcio da spingere il ministro Gelmini all’euforia perchè i dati 2009-2010 hanno collocato la preparazione dei quindicenni italiani al 28° posto su 35 paesi della rilevazione PISA-OECD. Nella fascia d’età 20-24 l’Italia era nel 2007 il paese d’Europa con la più alta percentuale di persone non impegnate in istruzione, al lavoro, o alla sua ricerca. Serve altro per capire che scarsa produttività del sistema industriale e declinante collocazione qualitativa delle produzioni dipendono anche dalla bassa qualità media del “capitale umano”?

Ci sono due sfide di lungo periodo, make or break, che il Paese ha davanti. Una sostanziale riorganizzazione qualitativa del sistema formativo. E una rimodulazione profonda dello Stato sociale, per attenuare gli effetti delle grandi trasformazioni in corso sulle prospettive retributive e previdenziali delle generazioni più giovani. Per sostenere queste riforme occorre un severo dimagrimento della spesa pubblica, e quindi un’iniezione di concreto riformismo nella nostra vita economica e politica. Ce la faremo?

9 dicembre 2010

Previsioni?

Annalisa Rossini, Ina Zhuka, Andrea Bolentini, Stefano Marmentini e Angelo Roversi, studenti del corso di Teoria degli Investimenti, hanno stilato un'articolata serie di previsioni per i mercato azionari italiano, francese, tedesco e USA nel 2011.

Impiegando informazione strutturata in varie configurazioni, dai modelli multifattoriali e semplici regressioni previsionali, gli studenti hanno estrapolato numeri abbastanza ottimistici (positivi) per il mercato azionario italiano e per quelli USA e tedesco, rimanendo invece abbastanza bearish per quello francese.

Al termine dell'esperimento ho condotto un semplice sondaggio su questa classe di studenti di finanza, chiedendo la previsione personale sulla performance del il FTSE MIB nel 2011. La media aritmetica delle previsioni (esclusa quella del docente) fa un bel +0.5%, con una deviazione standard intorno al 4%.

La previsione del docente? La ragione spinge a non fare previsioni, anzi a continuare a pensare che poichè là fuori ci sono ancora diversi elementi di consistente rischio non diversificabile, eventuali revisioni positive sul piano dei cash flows delle imprese possano essere facilmente dominate da scossoni relativi al loro aggiustamento per il rischio.

Finale non entusiasmante, ma realista, credo.

6 dicembre 2010

200 Paesi in 200 anni

Bellissimo clip (segnalato dal blog di G. Mankiw) sull'evoluzione del reddito pro-capite di 200 Paesi in 200 anni.

2 dicembre 2010

Investitori distratti?

Stefania Bono, Irina Mezzani, Matteo Babaglioni e Matteo Bulgari, studenti del corso di Teoria degli Investimenti, hanno firmato per il corso un'analisi della rilevanza del settore bancario italiano sul listino azionario del nostro Paese, anche in termini di performance storica.

Dallo studio emergono diversi fatti.

Innanzitutto una evidente sproporzione relativa tra la rilevanza dell'attivo di bilancio sul PIL (inferiore a quello di Francia e germania, per esempio) e il peso del settore finanziario sulla capitalizzazione complessiva del mercato azionario (di gran lunga il maggiore in Europa e anche rispetto agli USA).

Poi, una performance abbastanza deludente dei titoli bancari italiani nel periodo 2003-2010, come evidenziato dal grafico in basso (click per ingrandire). Rispetto alle nostre,fanno peggio solo poche grandi banche nei Paesi presi in esame.


La domanda sorge spontanea: se le banche italiane sono davvero più solide degli sventurati peers di altri Paesi vittime di grandi shocks negli anni scorsi, come mai gli investitori non ne premiano le azioni?