26 aprile 2012

Rigore e crescita. It doesn't work...

(click per ingrandire questo disastro)






20 aprile 2012

Un'economia di guerra

Il grafico in basso (click per ingrandire) estratto da La Repubblica di ieri, mostra in termini molto chiari la misura dei problemi economici che il nostro Paese fronteggia.

Un rallentamento della crescita economica è un fenomeno fisiologicamente associato alla maturazione industriale delle economie. Con l'aumento del PIL procapite, tutti i Paesi, Cina compresa, assistono nel corso dei decenni a un ridimensionamento dei tassi di crescita del reddito. Il problema dell'Italia è che questa riduzione è stata la più pronunciata tra tutti i Paesi OCSE, e nell'ultimo quinquennio il PIL procapite è complessivamente diminuito, evocando uno scenario vissuto solo al termine dell'ultimo conflitto mondiale.

La causa fondamentale dietro questo andamento di lungo termine è un marcato rallentamento nella crescita della produttività totale dei fattori. La quantità di prodotto generata da un'ora di lavoro applicata ai processi produttivi nel nostro Paese tende oggi a crescere molto meno di pochi anni fa, e meno di quanto non accada nei sistemi industriali nostri concorrenti, in primis europei.

Abbiamo già scritto che da una nostra recente analisi risulta come questo fenomeno possa essere determinato da effetti depressivi associati alla crescita del debito pubblico.

In termini più diretti, l'economia del nostro Paese soffre di una complessiva mancanza di tensione competitiva, che produce imprese mediamente poco concorrenziali, lavoratori mediamente poco produttivi, università mediamente poco qualificanti, e così via.

Se l'Italia non riuscirà a liberarsi da questa morsa soffocante in tempi brevi, il lungo e costoso declino descritto dal grafico rischia di trasformarsi in una prospettiva ancora meno confortante.

16 aprile 2012

Bank capital, an inconvenient truth

Le banche italiane (e diverse di quelle europee) sono gravemente sottocapitalizzate. Kernels lo va scrivendo da tempo, sostenuto da evidenza internazionale (BIS) e nazionale (Banca d'Italia).

Che lo confermi, e con notarile freddezza una grande (e anch'essa un po' sottocapitalizzata) banca inglese, può stupire solo i pochi che ancora non ci leggono...

Uno studio di Barclays conferma che diversi grandi intermediari Europei accusano oggi una pesante carenza di mezzi propri, con le più grandi banche italiane top of the list. La misura del fabbisogno di nuovo capitale viene proporzionata all'attuale capitalizzazione di mercato degli istituti. Risultato: MPS, Unicredit, UBI, IntesaSanPaolo, dovrebbero tutti raccogliere nuovo capitale per importi compresi tra il 40 e il 60% della loro attuale capitalizzazione, per sperare di ricondurre i rispettivi rischi a livelli compatibili con un loro pacifico accesso al mercato obbligazionario. La banca europea sulla mediana della distribuzione dovrebbe raccogliere almeno il 30%...

Per qualche dettaglio in più su questo scenario, terrificante per la foresta pietrificata dei managers e delle fondazioni bancarie di casa nostra (e non solo), vedi grafico in basso (click per ingrandire).



Ovviamente, per rimettere in carreggiata la propria struttura capitale, le banche potrebbero far ricorso, anzichè all'emissione di nuove azioni, alla restrizione degli impieghi, cioè dei prestiti. Ci sono molteplici evidenze che ciò è esattamente quanto sta avvenendo, peggiorando le già critiche condizioni di accesso al credito da parte delle imprese.

12 aprile 2012

A picture worth a thousand words...

Grafico molto eloquente (da Doug Short, click per ingrandire) sulla risposta di S&P 500 e rendimenti sul decennale USA della politica monetaria "straordinaria" seguita dalla Fed negli ultimi anni. Sarà interessante valutarne l'impatto complessivo e di lungo termine, tra qualche anno...


10 aprile 2012

Surprise! The financial crisis is not over...

Solo qualcuno a digiuno profondo di realismo, di minima competenza economica o di entrambe le cose poteva sostenere il contrario.

Ovvio, i mercati finanziari possono cercare di ignorare, anche a lungo, che il valore intrinseco di un'azione o di un titolo di stato è una funzione abbastanza precisa del suo cash flow fondamentale.

Ancora più ovvio, i mercati, qualche pseudo-banchiere e molti politici possono anche convincersi che una crisi come quella che viviamo da almeno quattro anni sia solo una questione di "animal spirits" e maligna speculazione, invece che di debito eccessivo, di carenza di competitività e di sottocapitalizzazione cronica degli intermediari finanziari.

Purtroppo però la realtà, pazientemente ma pervicacemente, si riprende il palcoscenico, e rende ogni mistificazione, appunto, una mistificazione. 

7 aprile 2012

Banche BCE-dipendenti

Marzo ha segnato un nuovo drammatico aumento della dipendenza delle banche italiane dalla liquidità BCE. Il grafico in basso (click per ingrandire) mostra che per il nostro Paese e per la Spagna (dati fino a febbraio) i prestiti BCE sono oramai di gran lunga la principale fonte di raccolta.


Incrociando questo andamento con l'evidenza sui depositi e sui prestiti interbancari, si consolida l'impressione che la gamba "crisi bancaria" delle tre che da sempre sottolineiamo essere al centro della crisi europea (le altre hanno a che fare con la competitività e la spesa pubblica di molte delle economie europee) sia stata tutt'altro che risolta dalle LTRO della BCE.

Anzi, la debolezza del canale depositi della raccolta, unita all'anomalo ruolo che la raccolta obbligazionaria, oggi in tilt, ha giocato negli ultimi anni, ha reso il sistema bancario italiano ormai drogato dall'intervento straordinario.

Come fanno i managers e le ineffabili fondazioni delle banche italiane a pensare  che investitori razionali si innamorino dei loro azionari?

3 aprile 2012

Persino peggio di quanto pensassimo!

In un nuovo lavoro con Simone Salotti (National University of Ireland, Galway), Even worse than you thought: The impact of government debt on aggregate investment and productivity, studiamo l'impatto del debito pubblico su due importanti determinanti della crescita economica di lungo termine, cioè la spesa privata (aggregata) per investimenti e la produttività del lavoro, impiegando un panel di 20 economie OCSE dal 1970 al 2009.

Recentemente, si è assistito a una notevole impennata dell'interesse accademico sulle implicazioni di livelli elevati del debito pubblico. La semplice regolarità sottolineata da Reinhart e Rogoff nel 2010 secondo la quale le economie con un rapporto debito/PIL superiore al 90% mostrano una crescita reale significativamente indebolita rispetto a Paesi meno indebitati, è il risultato più popolare di questa letteratura.

La nostra analisi cross-country mostra che livelli crescenti di debito sono sistematicamente associati a riduzioni significative della spesa privata per investimenti e con tassi di crescita della produttività altrettanto significativamente indeboliti.

Nel dettaglio, l'elasticità degli investimenti aggregati alle variazioni del rapporto debito/PIL risulta essere -0.25, mentre una differenza del 30% nel rapporto spiega una riduzione dello 0.26% nel tasso percentuale annuo della crescita della produttività. Entrambi gli effetti sono non solo statisticamente significativi, ma anche economicamente rilevanti.

Questi risultati costituiscono un corposo sostegno all'idea che livelli elevati di debito pubblico hanno effetti avversi sulla dinamica della produttività e sulla spesa per investimenti, che a loro volta hanno conseguenze molto importanti sulla crescita di lungo periodo. Soprattutto in tempi di bassa crescita economica come quelli che stiamo vivendo, emergono importanti implicazioni per la politica economica.

Innanzitutto, è abbastanza chiaro che la crescita economica in periodi preceduti da sostenute espansioni del debito è molto probabile che si mantenga debole, come risultato proprio della più lenta dinamica degli investimenti aggregati e della produttività.

Secondo, avere debito elevato implica una margini di manovra molto più limitati non solo per le politiche stabilizzazione macroeconomica, ma anche per le politiche orientate allo stimolo della crescita potenziale. In questo senso, il costo di un elevato debito pubblico deve essere rivalutato alla luce di queste severe e complesse conseguenze di lungo termine, anche più che in una ottica di sostenibilità a breve.