28 aprile 2011

Madoff e 'Madoff dei Parioli'

La vicenda etichettata ‘Madoff dei Parioli’ colpisce sempre più. Da quanto è già emerso, si tratterebbe di uno ‘schema à la Ponzi’ portato avanti per oltre 15 anni grazie anche alla imprescindibile copertura di banche. L’attività avrebbe fruttato una raccolta di 200-300 milioni di euro presso oltre 1.500 clienti-risparmiatori, tra i quali, a giudicare dalla lista di nomi messa in rete, troviamo non solo degli sciocchi, ma anche dei furbi, o peggio, dei personaggi interessati al riciclaggio di denaro frutto di reati vari che andrebbero dall’evasione fiscale all’estorsione. Spicca, in particolare, il nome del clan dei Piromalli, i quali avrebbero prima consegnato e poi preteso la restituzione di somme consistenti; e proprio questo, complice un’assurda denuncia per estorsione da parte degli architetti dello schema, avrebbe fatto emergere la vicenda.

Essa stimola diverse considerazioni. Una riguarda il frequente ripetersi di casi di raccolta di fondi fatta prospettando interessi fuori mercato che poi si cerca di corrispondere con raccolta di altro denaro. Lo schema richiede un numero sempre maggiore di nuovi risparmiatori, e quindi è destinato a saltare. A quel punto, la combinazione delle perdite causate a molti, dei reati contabili finalizzati a nascondere lo schema e magari dell’esercizio abusivo dell’attività bancaria, tipicamente determina una severa condanna per autori e complici dello schema. Carlo Ponzi, a cui va l’indesiderato onore di avere dato il nome allo schema, lo praticava agli inizi del secolo scorso, ma poi nel 1920 finiva in carcere. Lo svedese Ivar Kreuger lo praticava a cavallo degli anni 1920 e 1930, ma poi si suicidava nel 1934. La parabola ascendente di Sergei Mavrodi, alimentata dal medesimo schema, arrivava al capolinea nel 1992. Saltando i diversi e comunque notevoli casi dell’Albania del 1996-97, arriviamo a quello di Bernard Madoff emerso nel 2008. Dopo avere raccolto la cifra record di 65 miliardi di dollari, Madoff incassava anche la condanna record a 150 anni di carcere e perdeva un figlio, suicidatosi nel secondo anniversario dell’incarcerazione.

Ma allora, visti i sistematici, brutti esiti finali dello schema, perché continuano a provarci? La risposta sta, come al solito, nella combinazione di domanda e offerta. Da un lato, ci sono sempre capitali in mano a sciocchi o a furbi-criminali alla ricerca di canali e servizi fuori mercato che la finanza corsara tende a offrire; dall’altro, finché dura, lo schema rende molto bene ai suoi artefici. Partendo dal nulla, Madoff accumulava un patrimonio personale valutato in circa 1 miliardo di dollari e che comprendeva aerei e yacht personali nonché residenze in luoghi esotici. Quanto al ‘Madoff dei Parioli’, gli inquirenti stanno ricostruendo il patrimonio accumulato in vari luoghi e che sarebbe notevole, e il tenore di vita della cricca non era certo allineato con le loro apparenti capacità professionali.

Altre considerazioni attengono invece a una diversità oggettiva tra quei due ultimi casi. Lo spessore culturale degli artefici degli schemi è molto diverso. E’ di gran lunga più elevato quello di Madoff, non a caso arrivato alla carica di presidente del Nasdaq e noto per essere un sofisticato conoscitore dei meccanismi di mercato e contabili della finanza. ‘Bernie’ era in grado di beffare a lungo non solo i propri clienti e collaboratori, ma anche una SEC peraltro più volte imbeccata dall’evidenza fornita dal finanziere indipendente Harry Markopolos, che aveva compreso il carattere criminale dell’attività di Madoff. Alla fine però, come peraltro nel precedente ed altrettanto esemplare caso di Kreuger, nemmeno l’elevata preparazione culturale è bastata e il castello è crollato. L’indubbio, minore spessore culturale del Madoff ‘de noantri’ rende ancora più incomprensibile come per 15 anni egli abbia potuto beffare centinaia di clienti e operare indisturbato nell’ombra; e porta a pensare che qui le responsabilità delle banche siano ben maggiori di quelle di JP Morgan nel caso del Madoff di New York.

Tra i due casi, c’è poi una diversità che temiamo e che riguarda il possibile epilogo giudiziario di quello romano: non siamo sicuri che arrivi una sentenza altrettanto rapida ed esemplare.

13 aprile 2011

Politica monetaria USA al bivio

I programmi di acquisto dei titoli del Tesoro USA da parte della Fed, deliberatamente indirizzati a sostenere la ripresa economica attraverso la crescita delle quotazioni azionarie e immobiliari interne, secondo alcuni osservatori -noi tra quelli- hanno tra l'altro l'effetto di finanziare la domanda speculativa di alcune commodities.

Una recente analisi di Bloomberg (Bloomberg Brief: Economics 07.04.2011) conferma questa tesi, non molto condivisa nei centri studi della Riserva Federale, ma sostenuta da una certa evidenza empirica. Il grafico in basso (click per ingrandire) è particolarmente eloquente: la correlazione tra acquisti acquisti di Treasuries da parte della Fed e variazioni di un noto indice dei prezzi delle commodities è impressionante.


L'andamento delle commodities e del petrolio in particolare è nel medio termine tra i principali canali di trasmissione dell'impulso inflattivo generato dalle misure straordinarie di politica monetaria degli ultimi tre anni. Quindi, i timori di uno shock inflazionistico di rilevanza globale andrebbero contestualizzati alla luce del fatto che quelle misure, proprio perché straordinarie, potrebbero esse stesse, una volta invertite di segno, stabilizzare al ribasso i mercati delle commodities.

Resta però un grande interrogativo: sarà la Fed in grado di fare realmente, come anticipa da qualche tempo, una completa retromarcia sugli acquisti di Treasuries? Ci sono notevoli ostacoli ad una liquidazione significativa dello stock di titoli detenuto dalla banca centrale USA, innanzitutto di ordine politico, ma anche tecnico. Nei giorni passati sono emersi i contorni di un contrasto abbastanza chiaro tra i componenti del Board della Fed.

E' quindi lecito nutrire più di qualche dubbio sul fatto che con una ripresa debole e incerta, mercati degli assets complessivamente fragili e instabilità geopolitiche in rimonta, la banca centrale sarà effettivamente disposta a invertire una rotta espansiva così consolidata. I dubbi non aiutano i mercati finanziari e le scelte di investimento in generale, quindi quelli relativi alle strategie di politica monetaria andrebbero sciolti al più presto.  

6 aprile 2011

Un azionista pubblico per curare la miopia dei mercati? No, grazie

In un articolo del Sole 24 Ore del 1° aprile, Donato Masciandaro parte dall’accusa alle autorità europee e ai mercati di miopia nei confronti delle banche italiane. La miopia delle autorità starebbe nella loro scelta di stress test pubblici: “ben vengano gli stress test … ma essi devono rimanere un patrimonio informativo delle autorità di controllo”. La miopia dei mercati starebbe nel loro orizzonte di valutazione troppo corto e che “punisce le banche –come le nostre- che non possono far ricorso alla finanza facile.” Dalla diagnosi, l’articolo passa poi alla cura. Per evitare danni a un’industria bancaria nazionale definita “sana e stabile” è necessario rimuovere almeno la miopia dei mercati e “da questo punto di vista l’ipotesi di un fondo strategico dello stato italiano, disegnato con garanzia d’indipendenza e accountability, potrebbe essere uno strumento efficace.”

Il suggerimento di non rendere noti i risultati degli stress test non ha fondamento. La crisi che viviamo è profonda e duratura sia per la serietà dei precedenti errori strategici di molte istituzioni private e pubbliche sia perché, scoppiata la crisi, è sistematicamente rimasto un grande divario tra l’informazione che i mercati pretendevano di avere per funzionare al meglio e quella che invece era via via disponibile.

Ricordiamo alcuni interrogativi posti dai mercati e che hanno scandito e ancora stanno significativamente scandendo la crisi. Quanto grande può essere il ciclo dei prezzi degli immobili? Quale sarebbe il valore di realizzo dei titoli tossici? Quanto rischio è stato portato fuori dalle banche piuttosto che semplicemente spostato in veicoli nei confronti dei quali le banche sono comunque responsabili? Sull’interbancario, quanto una banca si può fidare di un’altra? Dopo il QE2 ci sarà un QE3? In ogni caso, quando tutte le banche centrali cominceranno a smobilizzare le valanghe di titoli acquistati, rimettendo così in circolo l’enorme rischio di credito di cui, per la prima volta nella storia, si sono fatte carico? Quali saranno le modalità di conduzione delle politiche monetarie del prossimo decennio? Quale sarà il peso assegnato agli obiettivi della stabilità monetaria e della stabilità finanziaria? Si recupererà la distinzione tra politiche fiscali e politiche monetarie? E che dire del rischio sovrano che minaccia sempre più di sfociare in default? Quanto sarebbe l’haircut necessario a stabilizzare il debito pubblico di almeno 3-4 Paesi? E quanto costerebbe ai privati da un lato e alle banche dall’altro?

Fermiamoci a quest’ultima domanda perché essa porta direttamente alla prima accusa di miopia mossa da Masciandaro alle autorità, ree di volere gli stress test pubblici. L’appena ricordata e specifica natura della crisi in atto e le risposte date nel corso della stessa alla pubblicazione dei risultati degli stress test già condotti tanto negli USA quanto in Europa ci portano a essere in totale disaccordo con quell’accusa. Oggi, gli stress test pubblici costituiscono una risposta dovuta alla giusta pretesa dei mercati di avere informazione adeguata sulle possibili dinamiche dei bilanci delle singole banche, comprese le nostre. Perché mai si dovrebbero fare i test e poi rinchiuderne i risultati nelle casseforti degli organi di vigilanza? Questi già sanno come stanno le singole banche e già dispongono di informazione riservata. Sono i mercati a pretendere legittimamente di sapere, e in questa fase di sapere soprattutto come le banche uscirebbero da una sempre più probabile ristrutturazione dei debiti pubblici. Se le cose così non fossero, perché i precedenti test, che pur hanno promosso tutti, sono stati seguiti da una discesa delle quotazioni dei titoli bancari? Si è avuto conferma che in questi contesti l’assenza di informazione viene trattata come informazione negativa e l’informazione va data ai mercati proprio per fare sì che essi non penalizzino anche le banche “sane e stabili”.

Questo porta alla tesi di Masciandaro della miopia dei mercati, che pure non condividiamo. Primo, se avessimo proprio a che fare con banche che sono “sane e stabili” oggi e in prospettiva, perché mai le autorità di vigilanza nazionali e internazionali (Banca d’Italia e BRI) chiederebbero loro consistenti ricapitalizzazioni? Secondo, il perspicace Andrew Haldane, responsabile della stabilità finanziaria per la Bank of England, ha recentemente dimostrato che i mercati iniziavano già nel 2002 a distinguere in termini di quotazioni tra le banche solide e quelle che cinque/sei anni dopo sarebbero state squassate da profonde crisi. Per cui, lungi dall’essere miopi, i mercati hanno la vista lunga; e più lunga anche di quella degli stessi regolatori, che fino al fallimento Lehman imponevano alle prime dei requisiti di capitale più elevati di quelli delle seconde!

Veniamo ora alla cura proposta, e quindi alla simpatia espressa da Masciandaro per il fondo strategico pubblico di investimento nelle banche di cui si parla in Italia. Anche su questo siamo in assoluto disaccordo. Delle due l’una. Se i mercati non sono miopi, non c’è bisogno di cura; se invece i mercati sono miopi, allora è pensabile che la politica italiana –che per antonomasia è miopia pura- sia in grado di rimediare al problema? L’operazione Alitalia di ieri o Parmalat di domani fanno forse pensare a una politica in grado di dare lezioni di lungimiranza ai mercati?

Per sintetizzare la nostra critica, immaginiamo di vivere in un mondo alla Masciandaro e di stare valutando il fascicolo di un possibile investimento in azioni bancarie. Ebbene, da un lato non conosceremmo i risultati degli stress test condotti sulle banche e dall’altro sapremmo che c’è un grosso azionista che risponde alle logiche della politica. Il fascicolo finirebbe subito non sullo scaffale, ma nel cestino.

5 aprile 2011

La vera faccia della recessione

Ci sono ovviamente molti modi per descrivere gli effetti di un rallentamento economico, ma credo che il più efficace sia di mostrarne le conseguenze sulle opportunità di lavoro, o piuttosto sulla loro scarsità.

Dal sito Calculated Risk si può scaricare il grafico in basso, che confronta per gli USA la variazione dell'occupazione (non della disoccupazione, concetto scivoloso) nelle recessioni del secondo dopoguerra. In particolare il grafico indicizza l'occupazione al picco, non al minimo.

Molto chiaro non soltanto che quella iniziata nel 2007 è stata la più profonda del gruppo, ma anche la più persistente. Secondo stime ragionevoli, i livelli occupazionali del 2007 potrebbero essere recuperati all'incirca alla fine di questo decennio.

1 aprile 2011

La natura strutturale di certi fenomeni

Una strip di 10 anni fa (click per ingrandire), perfettamente sincronizzata con gli eventi degli ultimi 3: