28 giugno 2012

Brescia e il credit crunch - Prima parte

Nel suo recente Global Financial Stability Report, il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito che, sulla base di uno studio delle 58 maggiori banche europee, queste continueranno nei prossimi 18 mesi a ridurre significativamente le proprie attività, per un ammontare di almeno 2 mila miliardi di euro. Si tratta di una tendenza avviatasi già nel 2011 e dovuta alla necessità delle banche di ridurre la propria esposizione ai rischi, attraverso un deleveraging che ridimensionerà i loro bilanci ancora per circa il 7% rispetto alla dimensione attuale. Del campione di intermediari europei selezionati dallo studio FMI fanno parte le italiane Intesa Sanpaolo, Unicredit, Montepaschi, Banco Popolare e UBI, ma le tendenze illustrate riguardano il sistema bancario nel suo complesso. In media, un quarto circa della riduzione delle attività sta avvenendo attraverso una riduzione del volume dei prestiti, e il resto attraverso la vendita di filiali e asset non strategici e titoli in portafoglio. Le proiezioni sono stime prudenti, e i tecnici del Fondo puntualizzano che sviluppi non favorevoli nelle politiche monetarie, nella congiuntura economica o nell’andamento dei mercati potrebbero fare ulteriormente crescere la misura del deleveraging e la sua quota coperta da riduzione dei prestiti.

Lo scenario baseline, cioè migliore, è già sufficientemente terrificante. La notevole contrazione delle attività bancarie, e dei prestiti in primis, se perseguita come anticipato, comporterà un attacco esiziale alla stabilità finanziaria e alla crescita economica, in Europa e altrove. Nel nostro continente il credito si ridurrebbe in media dell’1.7%. Si ricordi che in una normale recessione non diminuisce il volume dei crediti, ma solo il suo tasso di crescita. Tuttavia, ci sono già e persisterebbero profonde differenze tra banche e banche, e soprattutto tra paesi, con gli stati aventi spread sovrani più elevati esposti a un credit crunch ancora più consistente della media. In Germania la riduzione dell’offerta di credito sarebbe solo dello 0.1%, in Francia dello 0.5%, mentre in Spagna sfiorerebbe il 4%.

Per l’Italia è prevista una contrazione del credito del 2.8%, devastante soprattutto per le nostre imprese; il nostro tessuto produttivo è dominato da imprese medie, piccole e piccolissime, particolarmente dipendenti dal credito bancario e quindi da questo punto di vista ancora più vulnerabili.

Pochi giorni fa sono stato relatore in un importante convegno su PMI e mercati esteri nella nostra città. Tra gli altri relatori c’era un noto commentatore di cose economiche di fama nazionale, che in quell’occasione si è prodigato nel ribadire un “teorema della crisi” molto in voga sui nostri media e ahimè popolare anche in parte del mondo accademico nostrano. Il teorema avanza più o meno nel modo seguente. E’ vero, ci sono paesi europei dai deficit pubblici un po’ troppo pronunciati e con sistemi economici un pochino ingessati, ma si tratta di problematiche tutto sommato minori rispetto a quelle fronteggiate dalle economie anglosassoni, capaci di crescere solo grazie a una faraonica proliferazione di finanza speculativa e debito privato. Le banche? Beh, quelle europee sono mediamente più rigorose, meno aggressive di quelle yankee, che invece hanno trascinato il mondo verso la crisi perseguendo strategie di finanza speculativa senza freni. Il teorema si chiude con un corollario ineffabilmente complottista: le autorità economiche europee e quelle internazionali di regolazione bancaria, dominate come sono, rispettivamente, dalla Germania e dai grandi interessi finanziari americani, stanno affossando l’economia europea promuovendo, tra l’altro, insensate politiche di ricapitalizzazione che penalizzano soprattutto le nostre banche, aventi come unica colpa quella di essere sane e prudenti.

Non sorprende più di tanto che una “storiella” del genere esista e che circoli su tanti media, sulle pagine dei quotidiani più autorevoli come in alcuni corsivi dei giornali di Brescia. Viviamo in un Paese e una città confusi, dalle intelligenze decostruite, spesso irretite da inconfessabili conflitti d’interesse. E’ perciò salutare esercitare un piccolo sforzo di ripristino della razionalità e della realtà.

Il costoso credit crunch descritto dal FMI ha origine in due eventi che, sebbene distinti, si sono più volte intrecciati, in Italia e a Brescia. Da una parte, la crisi subprime avviatasi con lo sgonfiarsi della bolla nel settore immobiliare e della housing finance USA nel 2007 si è innestata su una situazione di tensione crescente nei rapporti tra banche e imprese italiane a seguito dell’adozione del modello originate-to-distribute da parte degli intermediari finanziari di casa nostra. Questo modello si è imposto essenzialmente grazie a innovazioni nelle tecnologie di trasferimento del rischio (securitisation), ma soprattutto in seguito ad alcune disposizioni regolamentari e a una generalizzata spinta alla deregulation in ambito finanziario. Nel nostro Paese, che non è rimasto in seconda fila rispetto a questi sviluppi, il tutto si è accompagnato, come altrove, a un approccio asimmetrico e tollerante in tema di esposizione ai rischi di credito delle banche. E’ stato per esempio tollerato nel caso di vari istituti, anche del nostro territorio, l’accumulo di esposizioni nei confronti di grandi debitori, spesso investitori nel capitale degli stessi gruppi bancari o protagonisti di avventure speculative mobiliari e immobiliari ad alto rischio, specifico e sistemico, e in media foriere di enormi perdite.

In parallelo, il settore creditizio italiano ha vissuto dai primi anni 2000 una seconda e più massiccia ondata di ristrutturazioni societarie e strutturali, che ha visto la costituzione di alcuni grandi gruppi bancari dalle dimensioni storicamente inusitate per il nostro Paese. Queste aggregazioni furono poco o per nulla frutto di logiche di mercato o di crescita organica, come avviene nella maggior parte dei mercati e anche di quelli creditizi, e risultarono per lo più da operazioni di fusione e incorporazione ad altissima leva e prive di logica economica, deliberate dalle fondazioni bancarie e da altre componenti rilevanti nell’azionariato dei preesistenti istituti bancari. L’assetto proprietario delle nostre banche è oggi dominato dalle fondazioni bancarie, soggetti ibridi unici al mondo, tendenzialmente opachi, dominati da blocchi di potere politico locale. Il risultato finale delle ristrutturazioni fu un fondamentale riassetto dalla struttura del nostro mercato bancario intorno a un numero relativamente contenuto di nuovi grandi gruppi, sulla cui solidità patrimoniale e sulle cui prospettive aziendali i dubbi, già significativi alla loro costituzione, crebbero con il passare del tempo. Analisi di istituti pubblici (Banca dei Regolamenti Internazionali, Fondo Monetario Internazionale, Banca d’Italia) e privati (Moody’s, per esempio) hanno dimostrato che i nostri maggiori gruppi bancari sono più di prima caratterizzati da patrimonializzazione e redditività esigue rispetto ai loro peers europei ed extraeuropei. Le maxi svalutazioni e le perdite su avviamenti messe a bilancio dagli stessi gruppi bancari nel 2012 confermano ampiamente questa fotografia....(continua)

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