14 dicembre 2010

L’insostenibile leggerezza del tirare a campare

L’economia italiana, al traino dei suoi principali mercati di sbocco, nel 2010 ha ricominciato a crescere, di circa l’1% all’anno. Tuttavia, soprattutto vista dal mercato del lavoro, questa ripresa somiglia molto a una recessione. In realtà, economia e società italiana usciranno dalle secche solo dopo una profonda trasformazione civile e di mentalità.

Mille indicatori confermano che l’economia italiana sta vivendo una crisi al quadrato. Una crisi congiunturale, partita con un tracollo degli ordinativi industriali, poi di produzione e consumi, e infine delle prospettive occupazionali. Questo dentro una crisi strutturale della nostra capacità di generare benessere diffuso, in corso da almeno un quindicennio. Fra i 30 paesi dell’OECD, il prodotto medio di un’ora lavorata è sceso negli ultimi dieci anni solo in un paese: il nostro. L’organizzazione del lavoro e delle aziende in Italia è mediamente inefficiente,  e le famiglie italiane vivono da molti anni una decisa perdita di potere d’acquisto.

La nostra è una società sempre meno giovane, quindi meno dinamica e innovativa. Ma anche dominata da una visione dello Stato come motore e trasmissione dell’economia, mentre in economie più vivaci lo Stato regola con efficienza l’iniziativa privata e sostiene pragmaticamente le infrastrutture materiali e immateriali per la crescita.

Questa crisi ha risolto la tensione tra le due forme di intervento pubblico. Semplicemente l’Italia non può più permettersi i termini attuali della sua organizzazione. I nostri conti pubblici sono a un passo dalla sostanziale insolvenza di Grecia, Irlanda e Portogallo, e oltre a limitare fortemente gli investimenti pubblici, il loro squilibrio ha pure distorto il mercato del lavoro, quello dei capitali, la politica.

I giovani sono il cuore del problema, e al tempo stesso la risorsa per risolverlo. Il nostro sistema educativo è così malconcio da spingere il ministro Gelmini all’euforia perchè i dati 2009-2010 hanno collocato la preparazione dei quindicenni italiani al 28° posto su 35 paesi della rilevazione PISA-OECD. Nella fascia d’età 20-24 l’Italia era nel 2007 il paese d’Europa con la più alta percentuale di persone non impegnate in istruzione, al lavoro, o alla sua ricerca. Serve altro per capire che scarsa produttività del sistema industriale e declinante collocazione qualitativa delle produzioni dipendono anche dalla bassa qualità media del “capitale umano”?

Ci sono due sfide di lungo periodo, make or break, che il Paese ha davanti. Una sostanziale riorganizzazione qualitativa del sistema formativo. E una rimodulazione profonda dello Stato sociale, per attenuare gli effetti delle grandi trasformazioni in corso sulle prospettive retributive e previdenziali delle generazioni più giovani. Per sostenere queste riforme occorre un severo dimagrimento della spesa pubblica, e quindi un’iniezione di concreto riformismo nella nostra vita economica e politica. Ce la faremo?

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